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Ilaria Anzoise. Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui, di Marco Revelli

Marco Rovelli, Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui, Minimum Fax, Roma, 2022, pp. 258, euro 17,00

Soffro dunque siamo di Marco Rovelli non è un libro per addetti ai lavori, ma un lavoro di indagine appassionato, condotto durante gli anni segnati dalla pandemia, che riflette sul legame tra forme del disagio psichico e società. Con questa inchiesta, che lo ha portato in luoghi di cura istituzionali e non, Rovelli ha inteso promuovere la riflessione sulle complesse articolazioni tra gli aspetti più critici della società iper-moderna e prestazionale e le nuove forme del disagio psichico, viste e raccontate attraverso una lente diversa da quella psicoanalitica. Rovelli infatti è un narratore, saggista, poeta e romanziere, cantautore e docente di Storia e Filosofia e, nelle sue opere, si è occupato di realtà marginali: migranti, detenuti, lavoratori sfruttati. Non poteva perciò sfuggire alla sensibilità del suo sguardo il tema del disagio psichico, che per lui è divenuto oggetto di indagine da affrontare, innanzitutto, come tema politico. Quella adottata da Rovelli, dunque, è una prospettiva forse insolita, che sollecita il confronto col malessere psichico mediante categorie e lessico inusuali rispetto al linguaggio specialistico.

Nel suo viaggio attraverso i territori del disagio psichico, Rovelli ha incontrato terapeuti e pazienti, psichiatri, servizi, pratiche psicoterapeutiche e psicofarmacologiche più e meno buone, tutte realtà osservate e descritte con lo sguardo attento e partecipato di un viaggiatore desideroso di conoscere e interrogarsi. In questo itinerario attraverso paesaggi e personaggi ben noti ai lettori di questa Rivista, si è orientato con gli strumenti della Filosofia, della Letteratura e della Sociologia, cercando di evidenziare le connessioni esistenti tra certi elementi del disagio psichico e alcuni degli aspetti più critici della nostra “società degli individui”.

Soffro dunque siamo è diviso in due parti, nella prima si riflette sulle cosiddette nuove forme di psicopatologia attraverso il dialogo con psicoterapeuti e psicoanalisti, mentre nella seconda si esplorano, con psicologi e psichiatri impegnati nei servizi, temi quali l’uso degli psicofarmaci, il trattamento dei pazienti gravi all’interno delle istituzioni, la vexata quaestio della diagnosi, la critica ad un certo tipo di psichiatria, il DSM.

Nella prima parte, Rovelli entra negli studi di terapeuti junghiani e lacaniani, gruppoanalisti, psicoterapeuti relazionali e gestaltici e, partendo dal racconto di alcuni casi clinici, tenta di mettere in evidenza come «il disagio psichico sia un sintomo che contrassegna profondamente la nostra società in senso pienamente politico» (2022, 11). Attraverso il confronto con chi abitualmente di questa sofferenza si fa carico, l’autore invita il lettore a pensare al disagio psichico non solo come intrapsichico ma anche come «disagio relazionale e sociale, connesso alla cultura del narcisismo della società iper-moderna e prestazionale» (2022, 79). Sin dalle prime pagine l’autore mette in discussione il modello di malattia mentale basato sulla metafora meccanicistica della mente, una concezione secondo la quale se il disagio psichico è dovuto ad un’anomalia chimica nel cervello non è necessario chiedersi se esistano anche determinanti patogene nella società. Rovelli, insomma, attacca la rappresentazione de-politicizzata della sofferenza psichica per promuovere una visione più articolata e complessa della relazione tra società e dolore psichico, una concezione che restituisca a quest’ultimo un senso più ampio, perché pensare di «cancellare la sofferenza con un farmaco oppure con una terapia veloce che in poche sedute elimini il sintomo, significa pensare che non abbia senso; ovvero, che non ci riguardi. È l’atteggiamento dominante: nella società dei vincenti: soffrire è da perdenti, di soffrire ci si vergogna, della sofferenza bisogna disfarsi con ogni mezzo» (2022, 15). L’autore insiste sul fatto che in uno spazio sociale, le cui regole sono state ridefinite dal modello neoliberale, la competizione e la rivalità sono celebrate come virtù individuali, la disuguaglianza appare come un premio per i migliori mentre la povertà e la fragilità sono considerate, per converso, conseguenze del proprio fallimento (2022, 30). L’ideologia egemone che vuole che i vincenti, ovvero i più ricchi, siano tali per meriti personali (negando i vantaggi dell’origine di classe, del patrimonio ereditato e del grado di istruzione) rende la frustrazione delle aspettative ed il fallimento sociale spettri intollerabili. Inoltre, da quando nell’immaginario sociale plasmato da questa ideologia si è incardinata la scomparsa dell’interdetto – la lacaniana Legge del Padre – le norme sociali, lungi dallo scomparire, si sono trasformate, finendo per gravare mostruosamente su un soggetto infragilito dall’individualismo esasperato. «La nostra società non si regge più sulla contrapposizione tra permesso/vietato, ma tra possibile/impossibile. Tutto è possibile: Just do it. E se ti è impossibile, se non ce la fai, la responsabilità è solo tua» (2022, 32). Così se le norme sociali impongono di fare (arricchirsi, diventare popolari, restare eternamente belli e giovani, divertirsi) ma il soggetto non è capace di essere all’altezza delle immagini vincenti di sé che il mondo gli propone, la responsabilità è solo la sua. Si configura qui qualcosa – un vulnus – che non ha più a che fare con la trasgressione di un interdetto ma con una mancanza di cui si deve avere vergogna, un’insufficienza: non è più questione di colpa, legata ad una legge che vieta, ma di vergogna legata al profilo sociale.

Le storie di vergogna e sofferenza che Rovelli riporta nella prima parte del libro sono “storie politiche”, perché legate ad un mondo del lavoro che si è fatto sempre più competitivo, incerto, angosciante. Seguendo Rovelli negli studi di psicoterapeuti e psicoanalisti di vario orientamento, il lettore incontra le vicende di impiegati di banca, manager e colletti bianchi le cui identità sono state modellate da quelle delle comunità aziendali. Sono persone sulle quali un cambio di dirigenza, di gestione o di software ha avuto un effetto dirompente, mettendone in crisi le strutture psichiche già minate dall’aderenza devota e cieca al modello sociale prestazionale. Nelle riflessioni di questo autore si avverte forte, accanto ad elementi foucaultiani, l’eco delle intuizioni lacaniane: «L’Io si crede forte nel momento in cui è incessantemente chiamato ad essere prestazionale, per poter accedere al paradiso delle merci ma la merce [...] è un’illusione compensativa: illude di poter colmare il proprio vuoto, la propria insufficienza; ed è l’illusione di poter fare a meno dell’Altro» (2022, 62).

La prima parte del libro risulta quindi, come è evidente da quanto scritto, estremamente interessante. Diversamente la seconda, a tratti, lascia intravedere la limitata competenza specifica dell’autore compensata, tuttavia, con il ricorso ad alcuni argomenti classici dell’anti-psichiatria di matrice foucaultiana.

In queste pagine, spesso piuttosto severe verso una certa psichiatria – accusata di essere tanto riduzionista quanto condizionata dalle logiche di mercato – trovano comunque spazio alcune delle molteplici esperienze di tanti operatori dei servizi territoriali che, da anni, in tutto il Paese, hanno promosso e sperimentato diversi modelli d’intervento innovativi.

Nonostante quelli che potrebbero sembrare dei limiti della seconda parte del libro, tuttavia, è molto stimolante confrontarsi con il testo di Rovelli. Mai come in questo caso le pagine scritte da un viaggiatore munito di bussole e mappe diverse da quelle con cui si ha familiarità, hanno restituito una visione feconda di spunti di riflessione proprio in quanto lontana dal lessico e dai paradigmi interpretativi consueti.

In conclusione, al netto di qualche ingenuità apparente, la lettura di questo testo può costituire, soprattutto per coloro che si affacciano alla pratica della psicoterapia psicoanalitica, un invito a riflettere sul rischio di liquidare troppo presto come difese o attacchi alcuni aspetti del dato di realtà con cui i nostri pazienti si confrontano quotidiana- mente, e su quanto questo rischio possa essere amplificato da una nostra soggettiva resistenza a riconoscere la pressione che le differenze di classe sociale e alcuni fattori culturali esercitano oggettivamente sul setting analitico e sulle particolari determinanti che informano la nostra – inattuale – prassi terapeutica.

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