LORENZO VINCI. BLUE JASMINE (2013)

Titolo: Blue Jasmine 
Regia: Woody Allen
Paese di produzione: Stati Uniti D’America
Anno: 2013

 
 
Pietro Roberto Goisis (2010) definisce il cinema come uno dei più potenti strumenti proiettivi di sempre. Quando entriamo in una sala cinematografica, al buio, e vengono proiettate sullo schermo quelle immagini, portatrici di una storia apparentemente unica, esse hanno la stessa potenza delle tavole di Rorschach, suscitando in noi emozioni, sensazioni e pensieri unici e irripetibili, che non sono mai uguali di volta in volta, di visione in visione. 
Blue Jasmine è il film in oggetto per questa riflessione. Un film sull’angoscia, parola emblematica del dolore non elaborato, del non essere stata, non essere ora e non essere mai della protagonista, tema centrale della storia. Un film che parla dell’angoscia shakespeariana di essere o non essere, o forse di esistere o non esistere, a cui è possibile sopravvivere soltanto attraverso la negazione ed il compromesso di vivere nel falso. 
Già lo stile di narrazione punta i riflettori su come il regista voglia fare apparire il personaggio principale. L’alternarsi di flashback della vita della Jasmine ricca ed eventi reali della Jasmine caduta in rovina riflette la divisione del mondo interno della protagonista, così come della sua identità.
 
Blue Jasmine, infatti, è un film sull’identità. 
Un’identità Jasmine non l’ha mai avuta: figlia abbandonata e poi adottata da una madre che l’ha fin da subito contrapposta alla sorella, rimane schiava di mancati rispecchiamenti e proiezioni genitoriali massive, costretta ad “appoggiarsi” su un’identità vacua basata sul falso e sull’inganno, che diventeranno il fulcro della sua personalità. 
Jasmine vive la sua intera vita nella negazione, che nel film si svela passo passo, mostrando come la falsità sia il suo unico modo di vivere, anzi di esistere. Pur potenzialmente dotata di una vera identità “ricca” (come fa presupporre la sua sensibilità e il suo amore per l’arte), essa non può mai palesarsi, mostrando piuttosto in una perpetua coazione a ripetere quella costruita. Il suo stesso nome, Jasmine, altro non è che un nome falso, e che nominato ogni giorno valida la falsità del suo essere; una copia più bella e sonora di Janette, che fa già comprendere come il “vero”, se non adeguatamente bello e sinuoso, non può essere mostrato per quello che è davvero, ma va adattato per essere più “compiacente”. 
Il falso e l’inganno si sono sostituiti alla verità, così come l’identità proiettata della madre si è sostituita alla sua vera identità, qualunque essa potesse essere. La spontaneità è stata sostituita con l’alienazione da una madre adottiva che ha preso il lutto di una madre biologica ed invece di riempirlo lo ha nuovamente annegato in qualcosa di non reale, in un ideale. Una spontaneità che esce fuori, raramente, attraverso l’alcool, di cui Jasmine sembra più volte abusare, comprensibilmente per tollerare la costante soppressione del proprio Sé e i sensi di colpa di preferire, nel profondo, la falsità. 
Il vero Sé di Jasmine sembra quindi inaccessibile, a lei nella sua vita come anche allo spettatore, che può trovarsi di fronte a sensazioni contrastanti nell’osservare il suo comportamento: dalla compassione alla rabbia, dalla tenerezza all’odio. Tutte sensazioni primitive, come quelle che si possono provare di fronte ad un bambino neonato, come d’altronde è il Sé di Jasmine. Un Sé fragile, inconsistente, che non potrebbe sopravvivere da solo all’impatto con il mondo reale senza qualcuno che dà forma e struttura. 
Winnicott (1960) ci descrive perfettamente come il falso vada a nascondere e proteggere un nucleo di vero Sé, probabilmente carico di vergogna e sofferenza, come quello che Jasmine ci fa trapelare, seppur in un gioco di vedo e non vedo, senza mai svelarlo, quasi come se anche la regia stessa volesse proteggere il vero Sé di Jasmine da un crollo di stile che distruggerebbe il suo personaggio, e pertanto il film.
E non credo sia casuale che quello che è stato uno degli aspetti più criticati del film in relazione alle normali tecniche del regista possa essere in realtà frutto di una scelta specifica: molti hanno definito banale l’accostamento di musiche, di solito magistralmente scelte da Woody Allen, così come alcuni hanno ritenuto eccessivo il numero di sponsorizzazioni di marche di vestiti o macchine. Io credo, a mio modesto parere, che essi siano il frutto di una specifica scelta cinematografica, quella dell’apparenza, del fatuo, del leggero, come se l’intera regia dovesse rappresentare la corazza del mondo interno di Jasmine, la sua anestesia emotiva, lo sminuire ogni catastrofe come solo una musica leggera in una scena tragica può riuscire a fare. Non sarebbe la prima volta, infatti, che il regista utilizza la colonna sonora e la scenografia come rappresentazione del mondo interno del protagonista; basti pensare a Match Point, dove la musica classica e dell’opera sono squisitamente in linea con la follia lucida del protagonista e con la sua grandiosa struttura egoica. 
Un Io, quello di Jasmine, che non ha potuto mai essere tale, quanto piuttosto un Ideale dell’Io, con la beffa di non essere neanche proprio, ma di qualcun altro, la madre adottiva: un Ideale dell’Io di qualcun altro. Al punto che, come detto sopra, l’unica scelta è continuare a perseguire l’inganno, perché non esiste un soggetto dietro Jasmine. Non esiste Jasmine. 
Rossella Valdrè (2016) nel suo libro “La morte dentro la vita. Riflessioni psicoanalitiche sulla pulsione muta” riflette sul fatto che ciò che incanta e strugge in Jasmine è una vita psichica nella quale il leitmotiv è non essere nessuno, se non quello che l’altro propone e regala. Ma, perduto o sottratto quel regalo, l’essere torna nudo, svuotato di senso, condannato alla sua irriducibile non esistenza. Il Sé di Jasmine viene paragonato alla ricerca vana di un mondo perduto per sempre, ma in realtà mai posseduto, e perciò desiderato con uno strazio che non si placa mai, che non conosce oggetti che possano davvero appagare e dare senso: rivivere l’eterna nostalgia di un idillio in realtà mai vissuto, quella melodica Blue Moon, canzone del ’37, sulle cui note lei e il marito si erano incontrati.
Sarantis Thanopulos (2017) in un articolo pubblicato per la rubrica Verità Nascoste nel quotidiano Il Manifesto definisce la storia di Jasmine la storia di una donna la cui madre ha sostituito con falsità e vacuità una più sana accettazione del lutto, del dolore e della perdita, da cui deriverebbero sane seppur dolorose trasformazioni, di cui Jasmine non è capace. Blue Jasmine è la storia di un abuso, un abuso psichico. L’inganno è la forza abusante con cui la protagonista è stata cresciuta e che ha incarnato come stile di vita, come cemento di scarsa qualità con cui dare solidità e stabilità alla sua vita. Viene da sé che l’angoscia di svelare l’inganno è sempre in agguato, e ciò che si nasconde dietro di esso è la verità, che un Sé non strutturato, un soggetto che non è divenuto tale ma che è rimasto oggetto di qualcun altro, non può tollerare. 
Se è vero, quindi, che dietro l’inganno si nasconde la verità, per chi non può tollerare la verità dietro l’inganno si nasconde il crollo, l’andare in pezzi (Winnicott, 1959). Crollo che si manifesta nell’ultima meravigliosamente emblematica scena finale, in cui Jasmine è seduta sola, in una panchina, “pazza”, che parla da sola, con il volto provato dal trauma. Una donna che ha perso l’unica cosa che la teneva aggrappata paradossalmente alla realtà: l’illusione. 
 
 Scena finale: Jasmine parla con un’estranea, su una panchina
 
Il concetto di abuso è fondamentale per una lettura più approfondita del film. L’abuso, infatti, porta oltre che ad un vero Sé danneggiato e da proteggere, una sofferenza psichica senza eguali ed un falso Sé che trasforma e perverte la realtà in modo coercitivo, anche alla nascita di un’altra emozione che finora non è stata nominata: l’aggressività. Jasmine, nel suo dolore e nella sua debolezza, porta dentro di sé una carica aggressiva e distruttiva che in tutto il film è presente, sia nel suo sarcasmo con il quale sminuisce la sorella e la realtà vera, sia nella sua perversione autodistruttiva di inganno e autoinganno, ma soprattutto nel momento più alto, quando denuncia il marito per frode. In un gioco sadomasochistico, come il marito decide di sottrarle l’identità lo stesso fa lei, secondo un disperato principio per il quale “Se non posso esistere io, non puoi esistere neanche tu”. Nessun senso di colpa sembra apparire per quanto fatto, anzi, piuttosto, quasi un piacere sadico per la vendetta agita. Il patto tacito di “finte identità” tra lei e il marito, per cui ognuno fa finta di non vedere chi è l’altro davvero per convenienza (la vita agiata per Jasmine, la moglie trofeo per lui) cade, e questo legittima a tirare nel baratro distruttivo ogni cosa. 
Il crollo finanziario, tematica principe del film, è lo specchio del crollo dell’Io e dell’identità: di fronte ad entrambi si è spacciati, in preda allo smarrimento. Il marito, però, è in grado di scegliere tragicamente il suicidio, mentre Jasmine per quello che ci mostra la pellicola non ha il coraggio e la consistenza identitaria di prendere neanche quella scelta. L’unica scelta che ha Jasmine, seppur alla fine sembra privata anche di essa, è perseverare nell’inganno contro ogni esame di realtà, è quella di continuare in una coazione a ripetere infruttuosa: essere scelta per la sua bellezza, proiettata ad un grande futuro e poi buttata via, così come dalla madre biologica, poi da quella adottiva, continuando con il marito e a per finire con il nuovo compagno. Una coazione a ripetere che è ulteriormente dimostrata dal fatto che Jasmine stessa butta via l’unica persona che vede la sua identità, e che pur rimandandogliela alle volte con invidia altre con cruda verità, la accetta per quella che è, e cioè la sorella. 
Quanto descritto è superbamente interpretato nel film da Cate Blanchett, che riesce a mettere in scena l’angoscia del crollo nello sguardo vuoto, anzi pieno di vuoti, di Jasmine. Un’interpretazione magistrale di un femminile struggente e distrutto, meraviglioso nella sua disperazione. 
 
BIBLIOGRAFIA
Goisis, R.P. (2010). Commento al film Departures di Yojiro Takita. In www.spiweb.it, sezione Cinema e Psicoanalisi, 15 aprile 2010. 
Thanopulos, S. (2017). Blue Jasmine: l’inganno come destino. In Il Manifesto, Verità Nascoste, 4 febbraio 2017. 
Valdrè, R. (2016). La morte dentro la vita. Riflessioni psicoanalitiche sulla pulsione muta. La pulsione di morte nella teoria, nella clinica e nell’arte. Rosenberg & Sellier: Torino. Capitolo 3 “Nell’arte. La coazione a ripetere: Blue Jasmine di Woody Allen, USA, 2013”, pagg. 131-146.
Winnicott, D.W. (1960). Sviluppo affettivo e ambiente. Armando Editore: Roma. 
Winnicott, D.W. (1959). La paura del crollo. In Winnicott, D.W. (1995). Esplorazioni psicoanalitiche. Raffaello Cortina Editore: Milano. 

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