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D. MATRANGA, S. ROTTOLI, S. SALVANESCHI, S. TRIGIANI, G. ZOENA. MARRACASH, LA PACE È FINITA? SULLE NOTE DELLA FRAGILITÀ UMANA NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

E’ finita la pace”. Marracash conclude così la sua trilogia discografica iniziata con “Persona” nel 2019 a cui ha fatto seguito nel 2021 “Noi, loro, gli altri”. Un percorso di crescita artistica ma anche interiore di cui proviamo a seguire le tracce. La trilogia inizia con “Persona” che ci immerge in un viaggio con e attraverso lo psiche-soma, passando per il cuore, la pelle, l’anima e l’Ego: un percorso in cui l’autore sembra dibattersi tra il bisogno di riconoscimento adeguandosi alle richieste sociali e il desiderio di essere autentico, con le proprie fragilità e incertezze «Sono un insicuro, non accetto me. Senza dimostrare più a nessuno, frate', eccetto a me» (Body parts: i denti) . La lotta tra la persona, intesa anche come maschera che si presenta agli altri e, appunto, il personaggio, nel rapporto spesso conflittuale con l’altro e con il mondo esterno, con le sue richieste: «sembra che più li mando affanculo e più mi cercano, perché è la mia ribellione che vogliono vendere» (ibidem).
In Persona è percepibile la necessità quasi spasmodica di trovare un senso al proprio essere e stare nel mondo: «Io a due grammi dall'overdose, A due zeri da quella Rolls, che mi colse l'idea improvvisa Che ero vuoto, senza scopo Ho il cuore spezzato, tu hai lo stetoscopio» (Qualcosa in cui credere: lo scheletro); in queste parole è racchiuso il disagio dell’epoca contemporanea che, come afferma Byung Chul Han in “Le non cose”, si nutre di immateriale, di una realtà che, essendo informatizzata, risulta priva di consistenza.
Perdersi nella rete, e perdersi in un amore che prosciuga l’anima, come racconta in Crudelia: «Non so se è amore o manipolazione, desiderio od ossessione Se pigrizia o depressione, che finisca per favore (prima), che esaurisca la ragione» (Crudelia: i nervi)
Un’esplorazione profonda e senza mezzi termini di un amore crudele che priva invece di arricchire, che tende alla mortificazione dell’Altro piuttosto che vivificare. Oggi lo definiremmo un “amore tossico”, nel quale la sopravvivenza dell’Uno è a detrimento dell’Altro.  Ancora di amore e di relazioni il cantautore ci parla in “Noi, loro, gli altri”, secondo album della trilogia, tenendo un occhio aperto anche sulla società e le sue contraddizioni e ipocrisie. L’amore è cantato in “Love” e sono significative le strofe «Ehi, se ho chiuso i contatti, bro, l’ho fatto solo per salvarmi. Sono un uomo adesso, odiami che ti amo lo stesso. Perché il dolore è amore inespresso»: amare gli altri ma anche se stessi, quando si affronta la decisione dolorosa di separarsi per continuare a esistere. Separarsi e individuarsi, divenendo un Altro e “Loro” diventano gli altri, quelli da cui ci si vuole distinguere ma infine «Siamo uguali noi e loro, noi e loro. Spesso siamo noi loro». Nel “loro” è racchiusa anche la società verso cui Marracash sembra indirizzare un’accusa nemmeno poi tanto velata, quando ne mette in risalto le fallacie, le discriminazioni e mancanze: «Oggi che possiamo rivendicare di essere bianchi, neri, gialli, verdi O di essere cis, gay, bi, trans o non avere un genere Non possiamo ancora essere poveri Perché tutto è inclusivo a parte i posti esclusivi, no? Oggi che tutti lottiamo così tanto per difendere le nostre identità Abbiamo perso di vista quella collettiva L’abbiamo frammentata Noi, loro e gli altri Noi, loro e gli altri Persone». Dunque i primi due passi della trilogia sembrano legati da un filo sottile che parte da sé per giungere al "Sé con l’Altro” in un mondo nel quale ognuno finisce nel paradosso di volersi distinguere conformandosi.
La pace è finita”, ultima “puntata” della trilogia, esce improvvisamente, senza anticipo o pubblicità, come una bomba che esplode nel mercato, come quelle a Gaza e in Ucraina.
Dopo il viaggio introspettivo che l’artista fa con i primi due album rispetto ai suoi conflitti interni e relazionali, con questo disco segna il ritorno alla realtà, con uno sguardo sul mondo e la società. E’ così, improvvisamente, che Marracash sceglie di tornare a contatto con la realtà, uscendo dalla bolla che lo ritrae in copertina. Traumatico, come l’impatto che ha il bambino quando nasce, lasciando quello spazio caldo, accogliente e pieno. 
L’artista sembra descrivere quello che potrebbe trovare proprio un neonato: un mondo freddo e doloroso, che destabilizza, perché non si conosce e riconosce. Un mondo che ci consegna alla solitudine, una condizione umana dilagante nell’epoca contemporanea. 
Ascoltando per la prima volta “Soli”, uno degli ultimi singoli di Marracash, la sensazione è quella di lasciarsi inondare da un ritmo sorprendentemente travolgente, tanto da indurre l’ascoltatore a canticchiare presto tra sè qualche monosillabo strimpellato. Senonché quella stessa melodia ritmata, a distanza di qualche verso, finisce per assumere le sembianze di un pugno nello stomaco. 
La solitudine. Una tematica dalla portata universale, che travolge, che ci trascina verso note interiori, basse e cupe… ingombrante, eppure così intimamente custodita, a volte sminuita, ma in fondo sempre molto vicina all’uomo del nostro tempo. Un essere umano spesso impossibilitato ad accogliere dentro sé e comprendere in modo profondo le proprie emozioni, angosce e fantasie; ad accettarle e ad avere cura della propria fragilità (Klein, 1959). 
Il ritmo energico dell’hip-hop si mescola con quello del rap, secco e conciso, ed incontra – ancora – il rock-pop italiano sulle note di altri tempi. 
Ci sono uomini soli. È con un omaggio al celebre singolo dei Pooh, datato 1990, che il Cantautore si appresta a dialogare con l’uomo di oggi, scuotendolo dalla dimensione in cui giace relegato pressoché immobile, con un richiamo che riecheggia da un passato neanche poi così lontano. Uomini rimasti ai bordi, che attraversano uno stato di isolamento e abbandono, al contempo romantici, in branco, capaci di accedere al sentimento e di mantenere in vita una flebile fiammella di creatività, alle volte. Uomini che, tuttavia, paiono arrancare in quel loro stare gli uni con gli altri, che provano ad aderire superficialmente all’ipocrisia della società attuale, laddove distinguersi rischia di non sortire alcun effetto, se non quello di incrementare ulteriormente il vuoto della propria solitudine («chi non si addomestica come me»). Per quanto diversi possano essere i sogni e i dilemmi, i luoghi abitati («nei carceri, in auto, soli sul web» e ancora «in attici, al parco, nei bassifondi»; «nei traffici, in viaggio, soli in un club»), la solitudine dilaga imperterrita, senza guardare in faccia a nessuno. 
Nonostante i social media ci lascino intendere di essere costantemente collegati con migliaia di persone, virtualmente connessi gli uni agli altri seppure a grandi distanze, l’impatto con la realtà presto ci costringe a fare i conti con una solitudine profonda. Siamo soli con noi stessi, tanto nel mondo reale, quanto in quello virtuale. Come si deduce dalle parole di Marracash, questo netto contrasto fra un senso di appartenenza e non-appartenenza, vicinanza e non-vicinanza insieme, alimentato dalla società in cui viviamo, genera un forte senso di estraniamento ed alienazione. I sentimenti di sdegno e svilimento sono evidenti nelle parole del Cantautore: «guardo la gente dare il suo peggio in rete e non mi sembra nemmeno che apparteniamo alla stessa specie». 
Meglio soli, dunque, ma a quale prezzo? E se, a patto di adeguarsi in modo meramente adesivo alla superficialità delle relazioni umane, ci si scoprisse comunque ancor più profondamente soli? Vien da domandarsi se si possa davvero scegliere, se ci sia realmente modo di arginare questa sorta di solitudine esistenziale. Ci scopriamo spesso incapaci di essere soli, come se non fosse possibile trovare nell’altro il rispecchiamento e l’identificazione – l’empatia – di cui siamo tanto bisognosi e fare, dunque, tesoro di esperienze relazionali analoghe nei momenti in cui l’altro è fisicamente distante, ma emotivamente vicino, interiorizzato (Winnicott, 1958).
Il Cantautore illustra stralci di una quotidianità desolante, in cui ogni atto umano rischia di apparire sterile e appiattito, ricorrendo ad immagini pregnanti e cariche di significato. Tra una strofa e l’altra si incontrano «vite sbilenche come cicche spente dentro un posa zeppo», finché il grigiore diviene sempre più denso e palpabile, tanto da assumere le sembianze di una prigione dalle sbarre scure e spesse, in cui l’uomo giace isolato e in stato alterato, come un veliero dentro una bottiglia. Vite come la sua, come quelle di molte altre persone, che tentano disperatamente di rifuggire dalla folla, che provano ad isolarsi – per proteggersi, fors’anche – da un mondo percepito sempre più come estraneo, ostile, troppo altro da sé («Resta fissa la mia exit strategy / Quante ne ho gettate nei miei baratri / Solo per restare solo maybe»). Una condizione psicologica assimilabile ad un quadro depressivo che, riprendendo il resto della canzone, «pare capiti, più comune di quanto immagini. Pare sia un’epidemia di depre e che i rapper siano prede facili».
In una società così fredda, piatta, che ci deprime, sembra che la vita sia anestetizzata con dei “farmaci per l’anima” per non stare a contatto con il dolore, la tristezza, il senso di solitudine e inquietudine che la realtà e gli eventi di vita ci costringono ad affrontare. Serve un po’ di “Pentothal”. L’incontro con questo testo scuote la mente e il corpo in un’esperienza di terrifica meraviglia. Un brivido percorre il verso «sciocco, egoista, vile, insensibile», che Marracash canta prima di recitare nel ritornello «io non so dire mai la verità/ senza mentire/ Devi somministrarmi il Pentothal».
Verità e menzogna si articolano in una apparente contraddizione che trova la sua risoluzione appunto nel Pentothal, il sale sodico tiopentale conosciuto come anestetico generale per brevi interventi chirurgici, ma che in realtà deve la sua notorietà al cinema e ai fumetti per il suo utilizzo come “siero della verità”. E allora cos’è questa sostanza se non un mix di sincerità e bugie? Un mix di ambivalenze contraddittorie, sconcertanti e consolanti insieme, che vedono il Penthotal protagonista, insieme ad altri principi attivi, delle iniezione letali destinate ai condannati a morte o della dolce morte per Eutanasia riservata ai pazienti terminali che possono sceglierla nei Paesi in cui è legale.
Lo sciocco, egoista, vile e insensibile, quindi, necessita di un anestetico, di un siero per dire il vero, per annientarsi o morire dolcemente. Questa sembra la sola condizione per sopravvivere in un mondo percepito come ostile ed arido, eppure queste parole sono in grado di attivare un corto circuito se ci fermiamo a riflettere e ci chiediamo cosa se ne faccia un insensibile di un anestetico. Non sono forse i vivi, i sensibili e i senzienti ad averne bisogno in caso di eccessiva stimolazione traumatica?
E’ probabile che l’insensibilità citata dall’Artista altro non sia che un primo tentativo di protezione dal surplus di stimoli che provengono dal caos del mondo esterno ma anche di quello interno, una sorta di barriera che serve a tenere il Sé al riparo. Uscendo dalla bolla Marracash si assume la responsabilità di esporre il proprio apparato senziente fatto di mente, corpo e anima alla traumaticità della vita, ma è come se sperimentasse un fallimento, vale a dire l’insucesso della capacità paraeccitatoria del proprio Io e la sconfitta di quell’armatura che si è costruito e che lo aiuta a sopravvivere, mostrandolo a sè e al mondo stupido, egocentrato, pusillanime e incapace di sentire e di connettersi all’altro. L’ultimo tentativo, l’estremo rimedio è il Pentothal.
Eppure la sensibilità, la stoffa e le vibrazioni emotive del Cantautore emergono dal testo con potenza deflagrante, suonando quasi una melodia a due voci: la prima, quella dal significato letterale delle parole, che celebra l’anestesia, la seconda, la voce dell’anima, che celebra l’essere senziente, che vive al di sotto della pelle, timoroso e intrappolato. La musica forse è l’unico movimento liberatorio, il canto è l’essenziale strumento per far emergere e portare al mondo la ricchezza e la vitalità che c’è sotto la coltre dell’insensibilità e della paura, un grido potente che chiede alle mani di chi ascolta di scavare e di andare oltre.
Forse non è un caso scoprire delle assonanze con un’altra canzone, quella dei Baustelle “Spogliami” (2025), che è un invito alla riscoperta dell'autenticità, in un mondo cinico e disilluso. Recita così un pezzetto del ritornello: «Spogliami di tutte le certezze e gli anestetici, tanto ormai non sento niente». Un atto coraggioso, come se si partisse dalla consapevolezza che si può correre il rischio di scoprirsi perché non c'è nulla da perdere. Anzi.
Una società in cui è l’apparenza e l’omologazione a fare da padrona, “falso qualcuno o autentica nullità”, con il rischio che se ci si guarda dentro si “sospetta di essere orribili”. Un mondo che corre, come in un gran prix, senza sostare, alla rincorsa di soldi e potere e il “rumore come ninna nanna”.
Quel sentirsi orribili e tornare a chiudersi nella propria bolla o, metaforicamente, divenire propriamente una bolla, composta di acqua e sale, come il figlio del professore in Parthenope, laddove il corpo prende la parola e diviene esso stesso la meraviglia e l’orrore dell’impossibilità di integrarsi nel mondo esterno. Un’immagine-bolla in cui si concentrano fragilità, l’eternamente infans e il senso di inadeguatezza rispetto allo sguardo esterno. 
 
Bibliografia 
B.C.Han (2022). Le non cose. Torino: Einaudi Editore, 2022.     
Freud S. (1895). Progetto di una psicologia. In O.S.F. vol.2, Torino: Bollati Boringhieri, 1989     
Klein M. (1959). Sul senso di solitudine. In: Il nostro mondo adulto. Firenze: Martinelli, 1974.
Winnicott D.W. (1958). La capacità di essere solo. In: Sviluppo affettivo e ambiente. Roma: Armando Editore, 1970. 

Sitografia
Personal: Marracash racconta il suo lungo silenzio, la psicoterapia e ‘Persona’


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