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Cultura e Società

Marina Nardo. Arsenico e vecchi merletti. Quando la storia deve cambiare

Mi trovavo ad assistere alle Giornate Inaugurali dell’anno accademico 2023 per la nostra Scuola di Formazione Sipp. L’evento si svolgeva in un teatro di Roma per permettere a tutti di partecipare, allievi e docenti delle tre sedi (Roma, Milano e Catania) dopo tre anni di restrizioni dovute al covid e di collegamenti via zoom. Era la prima volta, dalle Giornate del 2019, che ci trovavamo in presenza. Circolava nell’aria un’emozione gioiosa e un po’ euforica, nonostante la pioggia scrosciante e il freddo di gennaio.

I relatori, il moderatore e la presidente si trovavano sul palco del teatro e, a turno, ci leggevano il loro intervento sul tema delle giornate: La trasmissione del sapere nella formazione e nella clinica, tra ripetizione e costruzione: passaggi di crescita.
Le relazioni erano ben argomentate e molto interessanti, ognuno di loro, da diversi punti di vista, esponeva l’importanza della storia, le origini e lo sviluppo del pensiero psicoanalitico.
Io sto sempre seduta in ultima fila, un retaggio dagli anni scolastici; in fondo alla platea, come nell’aula del liceo, posso vedere tutti, posso ascoltare indisturbata, ma anche distrarmi, senza essere notata (almeno così credo).

Dopo un tempo di ascolto per me abbastanza lungo, tendo a perdere la concentrazione e mi lascio andare in pensieri fluttuanti. Comincio così ad essere catturata dallo sfondo del palcoscenico: i relatori danno le spalle a una scenografia allestita per uno spettacolo che si terrà in quel teatro, non so quale sia l’opera prevista, ma la scena che appare rappresenta un salotto arredato con gusto e la visione è gradevole, un divano, poltrone, quadri appesi, vasi, fiori, un tavolo …
Una scena completa, sembra un affresco e le figure dei colleghi che parlano diventano per me sfondo e lo sfondo si fa scena!

Come in un sogno ad occhi aperti (gli psicoanalisti la chiamano revêrie) mi si affaccia alla memoria il ricordo di una commedia  che ho visto tanti anni fa “Arsenico e vecchi merletti” al teatro Goldoni di Venezia. Una rappresentazione scritta da Joseph Kesselring nel 1939. Si svolge interamente in una stanza, come quella che mi ha catturato l’attenzione, una “black comedy degli equivoci” diranno gli americani sul film omonimo di Franz Capra, con Cary Grant, era il 1944, in piena guerra …

Protagonista della storia è lo scrittore Mortimer, ex scapolo pentito, ancora un po’ tormentato per essersi contraddetto circa i vantaggi del celibato.
Egli torna a casa dalle zie Abby e Martha per annunciare il suo recente matrimonio con Elaine, ma ahimè scopre che le due amabili e arzille ziette "aiutano a passare a miglior vita”  quelli che affettuosamente chiamano i "lor signori" ossia gli inquilini ai quali affittano le camere. Con fare gioviale e allegro esse offrono loro del vino di sambuco corretto con arsenico. I malcapitati vengono poi seppelliti nella cantina di casa con l’aiuto del fratello Teddy (che crede di essere il presidente Roosvelt). Mortimer sempre più inorridito scopre che i cadaveri oramai sono arrivati a dodici.
Deciso a fermare la pazzia delle due zie e del fratello, Mortimer cerca di far internare Teddy in una casa di cura, ma i suoi piani vengono sconvolti dall'arrivo dell'altro suo fratello, Jonathan, un efferato pluriomicida. Anche Jonathan ha un cadavere da seppellire nella cantina delle zie (un cadavere personale, tutto suo).
Immaginatevi, pubblico di questa commedia, tra sorrisi e stupori e identificatevi con il povero Mortimer che si crede parte di una famiglia di pazzi incurabili. Mortimer disperato, sentendosi senza via d’uscita, confessa la tara alla moglie Elaine e temendo di poterle nuocere, decide di allontanarla da sé preoccupato anche di poter trasmettere la follia alle future generazioni.

A questo punto l’Autore decide per un lieto fine:
siamo alle soglie della seconda guerra mondiale, tra gli orrori del nazismo che si sta imponendo in Europa e mi piace pensare che l’Autore si preoccupi di infondere speranza, una via d’uscita da una situazione che pare condannare alla follia il protagonista (e forse l’umanità intera).
Con una soluzione inattesa svelata proprio dalle zie, deus ex machina sarà la scoperta che egli è figlio illegittimo di una domestica, ella infatti era già incinta di Mortimer quando andò a lavorare per quella famiglia dove fu accolto come uno di loro.
Tutti sollevati, pubblico compreso, anche per le simpatiche zie che docilmente accettano di farsi ricoverare nella casa di cura insieme a Teddy, mentre per il fratello Jonathan, dagli omicidi cruenti, non c’è redenzione possibile e sarà arrestato. E vissero tutti felici e contenti.

Cosa ne posso fare di questa commedia alle Giornate Inaugurali?
Potrei fare acute interpretazioni, potrei trovare terreno fertile per espandere il pensiero, collegando le vicende alle relazioni, alla trasmissione del sapere psicoanalitico, al peso della storia, alla libertà di esistere e di reinventarsi. Non è questo in fondo lo scopo del nostro lavoro?
Alla fine, il protagonista della commedia trova la forza che gli mancava per realizzare la propria vita e assumersi le responsabilità di uomo adulto e questo grazie a quella strana famiglia che si era presa cura di lui e lo aveva cresciuto come un figlio. Una metafora della vita? Forse. Ma fare “esperienza della complessità” per usare un’espressione di Giuseppe Pellizzari, non è anche quello che accade nel training psicoanalitico?
“Passato, presente e futuro, come infilati al filo del desiderio che li attraversa” citando Freud.
Senza il suo amore per l’arte e la poesia, non sarebbe nata la psicoanalisi.
Tuttavia conoscendomi, anche nel profondo del mio inconscio super analizzato, credo che la mia “fuga” dalla realtà, in quel momento, fosse stata indotta principalmente dalla visione di quel palco e dalla mia passione per il teatro e la curiosità per l’arte in genere che mi ha allenata a guardare oltre.
La parola teatro in fondo deriva dal verbo greco Theàomai che significa “guardare, osservare”.

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La mia collega Angela Tomelli, in un bell’articolo di alcuni anni fa, scrisse che “il teatro mette in scena l’essere nel mondo” e questo pensiero mi sembra ne sintetizzi il valore.
Ella scrive, citando Petrella, che il teatro è prima di tutto un dispositivo che regola un certo tipo di scissione e rende possibile, sia all’attore che al fruitore, l’esperienza teatrale.
Tradotto, seguendo il linguaggio psicoanalitico: si potrebbe considerare il teatro un ambiente che già nella sua struttura esprime una cornice, un setting che predispone a uno spostamento del sé, in un movimento inconscio direi quasi transferale verso qualcosa che tocca nel profondo e può promuovere una nuova esperienza di sé, un rispecchiamento, un riflesso di sentimenti rimossi, una scoperta di potenzialità negate, una conferma, la memoria di esperienze vissute.
Terminata la rappresentazione, il gioco è finito! Si esce in silenzio e ognuno si riprende la propria identità e forse con qualcosa in più.

Se vi sembra esagerato tutto questo, pensate alle tragedie greche, Eschilo, Sofocle, Euripide. Alle commedie di Plauto e Terenzio, e via via proseguendo un po’ a caso, Moliere, Goldoni, Shakespeare, Cechov, Ibsen, Pirandello, Beckett, De Filippo, Pasolini, Gaber, Paolini, fino ad arrivare alle forme più nuove di teatro dove in ogni epoca si sperimenta con coraggio rompendo schemi preesistenti, pensiamo per esempio a Dario Fo che parlava un linguaggio incomprensibile che tutti capivano.

Alla fine, non mi resta che dire: andate a teatro, ce n’è per tutti i gusti, dramma, commedia, musical, danza, lirica, fa bene all’anima e allo spirito e anche all’inconscio che può sprigionarsi senza pericolo di impazzire.

 

Bibliografia

Freud Sigmund (1907) Il poeta e la fantasia. Opere, vol. 8

Pellizzari Giuseppe (2002) L’apprendista terapeuta. Boringhieri, Torino,

Petrella Fausto (2011). La mente come teatro. Centro Scientifico Editore. Torino.

Tomelli Angela (2014). Teatro: che passioni! Psicoterapia Psicoanalitica. XXI, 2.

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