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MARIA ANTONIETTA FENU. FEMMINICIDIO CON O SENZA CRUDELTÀ

 Povera santa, povero assassino
(Giordano Bruno Guerri) 

Maria fu trafitta da quattordici colpi di punteruolo inferti su tutto il corpo dal diciassettenne  Alessandro Serenelli. L’atto fu perpetrato in occasione dell’ennesimo approccio del ragazzo, che, come altre volte, era stato respinto.   
Era il 5 luglio del 1902, e il tentato stupro si realizzava nelle campagne di Cisterna, all’interno della Cascina Antica, ovvero il più grande edificio del Borgo Medioevale dove  alloggiavano i mezzadri arrivati, per lo più, delle Marche. Quell’area, al tempo, era la parte meno paludosa dell’Agro Pontino, dove era stata avviata una vasta operazione di colonizzazione grazie all'iniziativa del proprietario delle terre,  Attilio Gore Mazzoleni. Il grande progetto dunque aveva iniziato a concretizzarsi alla fine dell’ottocento, molto tempo prima della nota bonifica Mussolini.    
Alessandro Serenelli era l’ultimogenito di un bifolco alcolizzato che occupava con la propria famiglia lo stesso casolare dei Goretti, i familiari di Maria. Quel padre padrone, nella posizione di uomo più anziano della casa, secondo le vigenti regole del Patriarcato, fungeva da capofamiglia per tutti loro. La loro condizione comune era fatta di rudezza, degrado, fame e miseria. 
Quando avvenne il fatto Maria si difese gridando “No! No, è peccato, non si può, si va all’inferno!” Maria infatti non aveva nessuna coscienza di cosa lei, per se stessa, potesse  volere o non volere, desiderare o rifiutare, e non aveva coscienza di poter avere una decisionalità propria. In totale assenza di diritti la poveretta si appellava spaventata solo ad un principio universale, a una legge superiore, quella della Chiesa.
Al tempo dei fatti Maria aveva undici anni ed era analfabeta. Maria non arrivava al metro e trenta di altezza, era sottopeso, era affetta da una forma avanzata di malaria, ma aveva fatto la Prima Comunione. Maria era devota. Terzogenita di sette figli, in qualità di figlia femmina maggiore, poiché i grandi di giorno erano sempre al lavoro nei campi, la bambina svolgeva da sola le faccende domestiche, trasportava le pesanti provviste di acqua che andavano raccolte alla fonte, accudiva i fratelli minori, gli animali da cortile, preparava i pasti per i genitori e per i conviventi Serenelli. Non aveva amici, non aveva svaghi, non possedeva niente e non contava niente per nessuno. Maria, oggi, sarebbe definita una figlia deprivata, trascurata, sfruttata e maltrattata dai suoi stessi genitori, tanto che aveva ricevuto anche - il giorno stesso in cui il padre morì - un calcio in pancia per non avere preparato a tempo la tavola a mezzogiorno. Quella piccola figlia responsabile e laboriosa  era appena approdata allo sviluppo puberale.  
Dopo le gravi lesioni da punteruolo fu scoperta l’aggressione anche dagli adulti e Maria fu trasportata con un carro sino a Nettuno dove fu operata ai polmoni, allo sterno, all’addome: il tutto avvenne grossolanamente e senza anestesia, dato il contesto e l’epoca.  Intanto, completate le verifiche sulla eventuale deflorazione, l’indomani era già morente in ospedale per setticemia, Maria era stata individuata subito dai padri Passionisti come una possibile Santa locale, ovvero come una figura necessaria, al tempo, per rischiarare con la fede quel contesto collettivo di desolazione. Così Maria subì, oltre alle necessarie indagini legali, ulteriori e pressanti interrogatori sul quesito principe:  aveva, o non aveva, detto "sì" agli approcci del Serenelli e, prima di morire, dichiarava lei, Maria Goretti, di perdonare cristianamente il suo assassino? 
Maria era stata individuata all’epoca come attendibile Santa della Miseria, dimensione che allora rappresentava la condizione tragica di quei luoghi. Ma la questione non era semplice. Maria fu  canonizzata solo ai primi degli anni cinquanta, per volere di Pio XII e fu deputata  alla Protezione della Purezza, invece che alla Miseria, perché tale era l’esigenza religiosa, in Italia, più rispondente al clima postbellico. 
La cattiva sorte comunque continuava a remare contro Maria.  La questione centrale della castità,  una volta che la piccola vittima di femminicidio fu fatta Santa, la rese progressivamente impopolare, sino al vertice  dell’oblio raggiunto all’interno del Femminismo, che negli anni settanta contestava il mito della verginità femminile e tutto quanto vi ruotava intorno.   
Ancora cinquanta anni dopo, con Papa Francesco, Maria e’ stata  infine promossa al ruolo di  Santa Protettrice delle vittime di stupro, ma in abbinamento a Santa Dinfna, una fanciulla irlandese che a sua volta era stata uccisa dal proprio  padre e collegata, dalla Chiesa, anche alle patologie mentali.   
E’ a Santa Caterina, Martire di Alessandria, colta e bellissima secondo la leggenda  - e a quanto evoca il ritratto fatto da Michelangelo Merisi da Caravaggio -  che va invece la posizione  prestigiosa di Santa Protettrice delle donne vittime di violenza, l’area di cui tanto oggi si parla, e su cui, oggi, Caterina, attraverso la propria storia,  può aiutare a riflettere. La Santa infatti, prima di essere uccisa, era stata condannata alla tortura della doppia ruota dentata - ogni osso del corpo viene spezzato scientificamente dal boia prima che sia finalmente indotta la agognata morte nella vittima - per preciso ordine di Massenzio, l’imperatore romano che aveva chiesto a Caterina, in quanto promotrice di con-versioni alla religione cattolica, l’atto supremo di sottomissione femminile, al quale lei, credente, non si era prestata.   
Venendo ai tempi contemporanei - in cui i delitti perpetrati sulle donne sono quotidianamente sottoposti all’attenzione del pubblico - sappiamo che la legislazione ha introdotto l'aggravante della crudeltà come fattore aggiuntivo di  quantificazione per la pena da infliggere ai colpevoli. Su questo punto si è creato recentemente un ampio dibattito ma, per considerare le cose calibratamente, è necessario rammentare in primo luogo che il linguaggio giuridico non si muove esattamente come il linguaggio della quotidianità.  Anche se all’epoca di Massenzio non valeva la distinzione della crudeltà nei delitti, con la questione della Doppia Ruota Dentata di Caterina è possibile in qualche modo, dipanare  la confusione  su cosa la legge intenda per aggravante della crudeltà
I quattordici colpi di punteruolo di Serenelli oggi avrebbero, secondo la legge vigente, un senso  diverso rispetto alla tortura della ruota dentata (ruota o  altro corrispondente contemporaneo, come ad esempio potrebbe essere l’uso dell’acido) che martirizzava lentamente e sadicamente la vittima allo scopo di diffondere il terrore nel pubblico e dunque di rinforzare il potere di chi comandava, attraverso una rappresentazione estrema di crudeltà.  L’articolo 577 del codice penale si attiene oggi a un principio giuridico fondamentale: ne bis in idem.  Per la legge non si puo’ caricare per due volte la pena, allo stesso colpevole, per il medesimo reato. L’uccisione di un essere umano per la legge è di per sé  un atto di crudeltà, ma è diversa la gravità  del reato se l’aggressore sceglie una metodologia mirata espressamente a straziare il corpo della vittima con l’obiettivo principale di infliggere sofferenza, oppure se l’intenzione centrale, crudele senza alcun dubbio, è esclusivamente quella di uccidere.  La legge non entra nel merito di una valutazione etica, o emozionale/psicologica ma guarda al giusto calcolo degli anni della pena da infliggere. 
Tornando ad Alessandro Serenelli, minorenne a sua volta maltrattato e disperato, cresciuto nel degrado e nell’ignoranza,  nel processo non avrebbe avuto oggi l’aggravante della crudeltà. Non avendo avvocati in sua difesa non ha comunque  avuto  neppure le attenuanti dai giudici e ha subìto la  condanna a trent'anni di carcere per aver pugnalato Maria, in verità morta di setticemia,  e non perché dissanguata per le ferite. Il ragazzo inoltre confessò subito tutto, senza tentare fughe, ma dichiarò anche che il carcere segnava un salto in meglio rispetto alla vita che aveva fatto dalla nascita. Da adulto poi si convertì e chiese perdono alla madre di Maria, che serenamente lo  accordò. Alessandro infine morì nel 1970, solo e poverissimo. Fu ricordato,  da qualcuno avanti negli anni, come il  ragazzino cresciuto nel degrado e nell’ignoranza, che, senza capire niente di niente, aveva ucciso una  bambina a colpi di punteruolo.   
Al tempo di Maria Goretti non c’erano i media a infervorare le menti del pubblico - in particolare sugli aspetti  perversi e contorti -  come accade invece oggi nelle cronache di ogni delitto, vecchio e nuovo, che sia stato perpetrato sul corpo di una donna.  Non c’erano, al tempo, le logiche della comunicazione che  rendono la cronaca nera quasi una materia privilegiata di intrattenimento di massa, catturante  ed eccitante per tutti, anche per i piu’ giovani, sino al coinvolgimento inappropriato dei  bambini. 
Molti nostri adolescenti, comunque, dichiarano oggi, con sincera passione, di voler scegliere la facoltà di Criminologia all'Università, e di voler fare lo stesso lavoro degli specialisti che appaiono in televisione, sempre inquadrati e acconciati alla stregua di  popolarissime Star. Da un certo punto di vista tale fenomeno non sarebbe poi un gran male, se servisse a far conoscere meglio le leggi,  ma la questione non si esaurisce qui: in alcune scuole medie pare che gli alunni  facciano tra loro il gioco dei sondaggi in cui si vota la ragazza che meritava di più di essere uccisa,  mentre sui muri di una scuola media sono comparse scritte di dodicenni che inneggiano all’eroe Filippo Turetta, noto, con le sue settantacinque coltellate, per essere l’assassino di Giulia Cecchettin. 
Si parla molto di lui anche dopo la condanna all’ergastolo, ovvero a trenta anni, e del fatto che ha  inferto troppe coltellate sull’esile e delicato corpo della ex ragazza senza che la sentenza ravvisasse l’aggravante della crudeltà. L’ingovernabilità della comunicazione di massa alimenta però, in soggetti immaturi, una lettura capovolta della morale dei fatti, stimolando una sorta di identificazione con l’aggressore -  visto da alcuni come vincente - piuttosto che una posizione empatica e pietosa nei confronti della vittima. E questo fenomeno psicologico deviato che riscontriamo nelle scuole, come professionisti della mente ci porta a puntare in futuro non tanto sul soddisfacimento di un bisogno educativo, che impegna già varie scuole di Psicoterapia, relativamente alla gestione della affettività nelle giovani generazioni,  ma piuttosto su una lettura anche psicodinamica degli eventi: una lettura che aggiunge  uno strumento per gli educatori ma anche, per la legge, pur senza pretendere di esaurire l’arco delle competenze specifiche di una sentenza. 
La solidità di una persona, in poche parole, non si basa mai sull’esercizio della forza, della violenza, psicologica o fisica, diretta sulle persone o sulle cose, ma si basa sempre sulla resistenza interiore di fronte al proprio dolore mentale e di fronte alla esperienza di frustrazione dei propri desideri. La solidità psicologica consiste, sempre, nell’accettazione attiva della realtà, anche se  soggettivamente dolorosa, per approdare progressivamente  alla  trasformazione  interna del dolore privato in energia positiva, in forza vitale, da coltivare e spendere al meglio per sé e per gli altri. 
Da quanto abbiamo tutti sentito attraverso le registrazioni delle telefonate con Giulia e attraverso le registrazioni delle dichiarazioni personali, Filippo Turetta da tempo si vedeva sfuggire l’amore di Giulia, sua delicatissima ex fidanzatina, che, scrupolosa, responsabile e coscienziosa come era -  per certi versi caratterialmente simile alla piccola Maria - cercava in tutti modi di non ferirlo, di non farlo sentire umiliato, limitandosi ad affermare con argomenti razionali il proprio diritto ad avanzare secondo i propri  progetti di vita e  l’impegno costante che ad essi dedicava. 
Filippo invece non studiava come avrebbe dovuto, non coltivava legami né passioni,  non costruiva per se stesso nessun futuro: era ossessionato solo da Giulia, dalla sua costanza, dalla sua disciplina, dalla bella persona che era e dal fatto che con la laurea  sarebbe entrata pienamente nella propria libertà adulta. Giulia, dunque, avrebbe trovato un lavoro, avrebbe raggiunto un'autonomia economica, avrebbe vissuto la propria vita pienamente senza di lui.  Di qui possiamo capire la gravità della ferita narcisistica di Filippo che si vedeva superato su ogni fronte da Giulia, ormai diretta  verso la propria meta;  possiamo ipotizzare anche un sentimento di invidia nei confronti di lei che, dal suo punto di vista, facendo il proprio cammino, lo lasciava solo.  Ma abilmente Filippo, oggi lo sappiamo,  non manifestava nulla di tutto ciò, e non lasciava trapelare nulla della sua rabbia, del suo odio. Filippo, lamentando ostentatamente la propria infelicità di fronte a tutti, deliberatamente dissimulava la verità.
Quale che sia la natura di una sofferenza, di certo va sempre rispettata e compresa: qualcosa di irrisolto in Filippo lo induceva a tradire se stesso, a non costruire il proprio futuro, a non poter contare su di sé. Ma non chiedeva aiuto agli specialisti per questo, non pensava in primo luogo a cambiare se stesso e non riconosceva il problema come proprio. La realtà doveva adattarsi a lui.  La sua rabbia nei confronti di Giulia era camuffata sempre da un esteriore vittimismo che induceva tutti a temere un atto suicida. Il pericolo di autolesionismo dunque, timore da lui alimentato sapientemente, distoglieva gli altri dalla sola pensabilità di una eventuale sua aggressione verso Giulia. Intanto lavorava al suo progetto e decideva dove portarla per ucciderla. 
Nella sentenza del processo, oltre alla crudeltà, si respinge anche l’aggravante dello stalking con la motivazione che Giulia, sebbene ossessionata e perseguitata dalle richieste incalzanti di Filippo, “non aveva paura di lui”. La sentenza porta avanti dunque il principio  della libera scelta da parte di Giulia, nell’incontrare per l’ultima volta Filippo, come da lui richiesto.  La volta fatale. Eppure tutti abbiamo sentito le registrazioni. Filippo incalza senza dignità, con tono lacrimoso e vittimistico,  la povera ragazza: “Un solo incontro non ti costa niente, per favore, per favore!” ripete con finta umiltà, senza darle tregua. E’ dunque lui il protagonista romantico: è lui  la vittima che soffre e Giulia il tiranno. Eppure aveva già programmato di ucciderla e di occultarne il cadavere, per poi fuggire all’estero e rifarsi una vita.  Non era un progetto di omicidio-suicidio da disperato, oggi lo sappiamo: era omicidio.  
Tutti abbiamo sentito Giulia registrata al telefono che  invece di convocare gli uomini delle famiglie coinvolte a propria difesa, con vergogna lascia trapelare di fronte alle amiche che non ce la fa più, che Filippo è diventato un incubo; abbiamo sentito come a fatica, con voce tremante, lascia  drammaticamente intendere che  oramai lui le repelle, che lo detesta. La sua voce non sfoga mai la rabbia come avrebbe fatto una ragazza meno educata: la sua voce piange impotente di fronte al ricatto morale da cui non sa difendersi e che la costringe a fare ciò lei non vuole. E Giulia non è dunque vittima del Patriarcato  - come si è detto - dove in realtà dovrebbe sopravvivere quantomeno la Legge del Padre, il divieto, la norma. Giulia, in base alla sua visione delle relazioni umane,  è incredibilmente vittima della cultura della gentilezza, del rispetto, dell’inclusione,  valori dai quali è guidata in ogni sua scelta, per sincera scelta, a scapito dell’istinto che le dice altro. Giulia non pronuncia una sola parola irrispettosa, ma la sua voce con le amiche trema, perché l’inconscio  le segnala qualcosa che la ragione non vede. Quando c'è un pericolo bisogna scappare. Giulia invece  è vittima di una mente perversa che specula sulla sensibilità esasperata di lei, sulla correttezza, sulla perfezione etica di lei. Giulia vorrebbe sottrarsi, lo capiamo, lo sentiamo nella telefonata, ma Filippo la vuole bloccare proprio quando lei si avvia alla sua vita piena di donna. Giulia, infatti, vivrà e amerà anche altri uomini che la renderanno felice. E questo per lui, che non la ama affatto, che non l'ha mai amata nel senso pieno del concetto, non dovrà accadere. L’amore invece vuol dire cercare, in primo luogo, la felicità dell’altro, anche a prezzo della propria infelicità.

BIBLIOGRAFIA
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