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Vincenza Laurora. Violenza oggi: oltraggio dell’Altro e smarrimento del Sè

Relazione presentata alle Giornate Nazionali di Studio  Sipp  6-7 ottobre 2023 Roma
Violenza del pulsionale e violenza del sociale: lo sguardo della psicoanalisi

 

Violenza e angoscia esistenziale

Nella storia dell’umanità, la violenza, ha sempre in vario grado accompagnato e modellato lo sviluppo delle vite individuali, dei legami sociali e delle strutture istituzionali. Travolgendo ogni barriera, la violenza, sta in opposizione dialettica alla possibilità di dare una forma pensabile a bisogni e desideri. Anzi, irrompendo in azioni che scaricano l’energia liberata dalla rottura degli involucri psichici, ne rappresenta lo scacco. In opposizione al potere che struttura, la violenza distrugge. E’ un evento catastrofico, una forza dirompente che potrebbe anche inaugurare la nascita di un nuovo ordine: catastrofe in greco antico significa infatti ‘rovesciamento’. Nell’individuo nasce dalla forza delle proprie pulsioni di desiderio o da bisogni perentori di autoregolazione, come difesa da angosce di morte reale o psichica. Il suo movimento originario porta a cercare la relazione con l’Altro, come luogo psichico e reale di possibili esperienze di protezione e valorizzazione di Sè. E’ questa la forma della violenza primaria intrinseca all’inermità del nostro specifico e unico venire al mondo. Di essa ne portiamo traccia indelebile nella maturazione del nostro apparato psichico; ma via via che abitiamo il mondo, la incanaliamo nell’organizzazione della vita sociale e delle sue strutture istituzionali, che diventano per ciascuno di noi garanti metasociali e metapsichici. Quando come nei nostri tempi, il contesto sociale non può garantire attraverso la sua stabilità queste funzioni psichiche, tutto ritorna a ‘casa’ e per ciascuno di noi, mantenere l’equilibrio psichico diventa duro lavoro di tutti i giorni della vita.

La violenza agìta nello scenario reale, si scatena quando il soggetto vive o immagina di vivere una violazione dei diritti del Sé che lo autorizzano a travolgere i confini dell’Altro. Ma può anche non essere agita e tornare a rivolgersi verso le nostre istanze interiorizzate e ivi legarsi in organizzazioni narcisistiche e autodistruttive. Questo esito lo vediamo proprio in quelle vite che si sono dovute molto arrangiare ‘nella propria stessa carne’ e hanno introiettato, in una infausta dinamica interna, sia la vittima che il carnefice.    
Oggi, negli attuali contesti di vita dominati dalla precarietà e dall’imprevedibilità, la violenza permea le nostre vite a tutti i livelli: individuale, familiare e sociale. Ha assunto caratteri nuovi sia nelle motivazioni che la innescano che nelle forme in cui si manifesta. Nelle sue forme eclatanti, si concretizza in atti oltraggianti di autoaffermazione a tutti costi sull’Altro. Le ragioni che la scatenano appaiono spesso ‘banali’, non agganciate a interessi che comportino reale arricchimento o conquista di un potere organizzante da esercitare a proprio vantaggio.

Non sempre troviamo criteri chiari per riconoscerla e divenirne consapevoli, salvo in quei momenti, e crescono sempre di più, in cui prende una forma esplosiva incoercibile sproporzionata ai fatti occasionanti e, spesso, eticamente raccapricciante.
Ma prende anche forme tentacolari, proteiformi, carsiche, difficili da identificare che la rendono trasparente ai nostri stessi occhi e alla nostra coscienza. Queste nuove forme di violenza, più striscianti, non riconoscibili nel loro rapporto di causa-effetto, si presentano come efficienza, semplificazione della vita, opportunità creativa, moltiplicazione di occasioni di esperienza. Tra banalità e insensatezza, ci lascia perplessi, sgomenti, vuoti di significato. In entrambi i casi facciamo fatica a pensarci su, a farne un’esperienza di vita. Ma continuamente bombardato da emozioni fuggevoli, sfuggenti e trasmutanti, il nostro animo, rimane in tumulto, finchè, alla fine della nostra giornata, quando non possiamo più espellerla nelle mille attività quotidiane, questa costante tensione emotiva precipita sul fondo del nostro Sé in forma di opaca tristezza e sfinimento del pensiero. In ultima analisi ci resta dentro come oppressione dell’animo, dismisura e sgomento da cui può accadere di liberarcene attraverso altri gesti insensati. In ogni caso ci lascia lo sgomento della dismisura e un vuoto di senso. Il mondo dell’ipermodernita, è  attraversato’, come segnala Kaes (1) ‘da un sentimento di violenza…violenza silenziosa…violenza anonima e diffusa, innominata, spesso vergognosa…che non riconosciamo come atto di protesta contro l’informe e contro l’insopportabile…’.

Un sentimento di violenza pervasivo che sperimentiamo come oppressione dell’animo ed emorragia di slancio vitale. A questo proposito Bollas (2) scrive: ‘Il rimosso fa riferimento a contenuti mentali specifici che sono stati banditi dalla coscienza; l’oppresso si riferisce al pensiero umano forzatamente sospeso o distorto…implica un’alterazione non dei contenuti della mente ma delle capacità della stessa…’, anche l’oppresso finisce nell’inconscio però, come ‘…tentativo fallito che porta la traccia di ciò che avrebbe potuto essere creato mediante un movimento ideativo’.
Buchi neri nel rapporto uomo-mondo, buchi che risucchiano il dolore di vivere, ma insieme ad esso ingoiano l’energia necessaria a produrre quella qualità della vita psichica che può mantenerci, creativi, intuitivi e fraterni. La società liquida descritta da Bauman, sta evaporando in uno sciame di vite individuali che guizzano sui monopattini elettrizzati della visuofilia. Aumenta il dolore, si accelera la fuga. Ma l’evento pandemico di colpo ci ha fermati tutti.  Penso che abbia segnato uno spartiacque. Abbiamo attraversato un’esperienza collettiva di esposizione alla morte, che ha lacerato di colpo il velo del diniego, esponendoci all’esperienza ontologica della nostra inermità. Sembra che ne siano sortiti due effetti opposti: ha marcato in maniera ancora più forte in senso paranoide la qualità ‘straniera’ dell’Altro, come pericolo di annichilimento dell’Io e ha sottolineato il bisogno di riconoscere fattori forti di accomunamento parificante come possibile base di una relazione libidica. Il fatto è che l’esperienza di apertura all’Altro, come realtà fuori di se stessi, non accompagnata da un principio Terzo garante della legittimità del desiderio umano di conoscere, di oltrepassare il mondo dei sensi alla ricerca di qualcosa che non si vede, è fonte di angosce impensabili. Inoltre la pandemia, partita dal lontano oriente e scoperta dietro l’angolo di casa nostra, ci ha messi in contatto con la dimensione inquietante della globalizzazione e della manipolazione umana dell’ecosistema. Mentre eravamo chiusi nelle case, e i media ci rimandavano immagini e notizie da tutto il mondo, il nostro angolo visuale si è allargato e abbiamo colto l’immagine di una umanità ampiamente soverchiabile. Un’umanità in ginocchio che alzando lo sguardo intercetta un Altro ineludibile: l’Ambiente globale in cui viviamo. Ci ha portato all’evidenza il legame invisibile, più forte e tenace di quanto mai avessimo immaginato, con il sistema vitale Terra, con Gaia, come lo ha chiamato Lovelock (3). E da allora Gaia si è imposta come il Convitato di pietra al banchetto del mondo saccheggiato dall’opera dell’uomo: chiede interlocuzione e continua a far sentire la sua voce nei fenomeni atmosferici estremi di cui cominciamo a fare esperienza nella vita quotidiana. Sicchè il Terzo sbattuto fuori dalla finestra dalla velocità del nostro tempo di vita, si è ripresentato, senza mascherina, alla porta delle nostre case, richiamandoci alla responsabilità. Il Super-Io freudiano si è trasformato in una discarica di senso di colpa inconscio, i padri reali non trovano punti di appoggio su cui far leva, le madri si arrabattano tra adolescenze interminabili ed estenuanti giornate multitasking, le nuove generazioni rischiano di essere sopraffatte da potenti angosce esistenziali. Come sottolinea Natoli (4), abbiamo bisogno di ritrovare una misura. E se la società non ci aiuta e da soli non riusciamo a trovarne criteri, comincia Gaia a richiamarci, alla maniera sua, con il linguaggio della scienza, a ricordarci che l’equivalenza fra progresso e incremento quantitativo di ogni bisogno di vita è falsa e distruttiva. Paradossalmente ci viene in soccorso anche l’incremento esponenziale del flusso migratorio che impone la necessità di adottare uno sguardo nuovo sulla reale ampiezza del consesso umano e delle sue risorse. Tutto questo ha accentuato l’angoscia esistenziale del nostro tempo.

Ma oggi abbiamo a portata di dita un prodotto della tecnica pronto a soccorrerci quando l’angoscia dell’ignoto ci sbarra la strada: è il web, il digitale e tutte le cose che si possono fare e inventare nel mondo virtuale.  Chi più chi meno ci vivevamo già dentro, ma è innegabile che l’evento pandemico ne ha sdoganato l’utilizzo a tutti i livelli della popolazione e per tutte le necessità. Non si può negare che sia una grande risorsa del nostro tempo e che sia stata provvidenziale durante l’evento pandemico per continuare a lavorare, mantenere i contatti con i nostri pazienti, con i nostri cari quando eravamo chiusi in casa per evitare i contagi. Ma poi, passata l’emergenza, si è installata nelle nostre vite psicofisiche, insieme all’angoscia che avevamo vissuto, in forma di  opportunità per risparmiare costi umani ed economici, per farci stare più cose contemporaneamente nella stessa medesima giornata, fondamentalmente per distrarci dal male di vivere.  Un nuovo strumento creato dall’homo faber che ha finito per farsi bastare solo le dita per creare un mondo in cui trovare riparo dall’esposizione al rischio. Questa nuova possibilità di vivere e abitare il mondo, trova rappresentazione concreta nel tessuto urbano di molte grandi città, grazie alla geniale creatività dell’architetto Norman Foster che ne ha colto lo spirito in maniera esemplare. Sono gli Apple Store, le nuove cattedrali di cristallo trasparente in cui si celebra il rito di scongiurare l’angoscia di sentirsi gettati nel mondo a ‘partorire con dolore’, perché il nuovo Dio ci  invita a cogliere tutte le mele che desideriamo dall’albero della conoscenza digitale. Qualche anno fa ne è spuntato uno a Milano, a pochi passi dal Duomo, in piazza del Liberty, una piazza rettangolare caratterizzata da un importante palazzo che ne definisce il lato più lungo. E’ un ibrido architettonico della ricostruzione postbellica di proprietà di una società assicurativa che utilizza nella facciata elementi liberty, recuperati nel 1954, dalla rovine dell’Albergo-caffè-concerto Trianon, del 1905. Dal luglio 2018 nella piazza sembra essere atterrato un Ufo: l’apple-store disegnato per Milano da Foster. Ha il concept di una fontana che manda in circolo continuamente acqua vera sui lati lunghi di una struttura ad arco quadrangolare sempre di cristallo trasparente, attraversabile per scendere nello store sotterraneo con la sensazione eccitante di potersi immergere in una zampillante fontana, accompagnati dall’ipnotico gioco di luci creato dallo scorrere dell’acqua lungo le facce esterne dell’arco, senza che questa ti bagni. La fonte d’acqua, il suo fragoroso rovesciarsi e inabissarsi nelle fessure che la interrano alla base della struttura è posta all’inizio della piazza trasformata in una grande vasca a morbide gradinate di pietra bianca che si approfondisce di due piani. Ci si può sedere nella vasca di questa speciale fontana, e ritrovare la visione dell’acqua che cade lungo la parete di fronte, anch’essa di cristallo, che chiude la struttura e incornicia il secondo accesso allo store. La gente può sedersi, sparpagliarsi per le gradinate, per poi scivolare nel grande salone espositivo sotterraneo. Geniale!  

Nella piazza vediamo accostate due realtà: il palazzo Liberty, testimonianza storica che mette insieme i primi 50 anni del Novecento con un’operazione di conservazione di ciò che era rimasto dei luoghi dove la comunità milanese, prima della distruzione bellica, si incontrava nel tempo libero, con le nuove esigenze del dopoguerra. Ma nella piazza queste due realtà non dialogano, sono chiuse in se stesse, straniere l’una all’altra sia per la materia di cui sono fatte che per le visioni umane e i valori sociali che ne hanno guidato la realizzazione. Sembrano piuttosto metafora della frattura sociale e esistenziale che connota oggi il nostro modo di vivere, ma anche una visione della geografia del nostro mondo interno pressato dal bisogno di fuggire dal dolore psichico.

Vivere in due realtà: le trame invisibili della violenza

Dal secondo decennio di questo millennio, abbiamo aggiunto alla velocità anche uno sdoppiamento dell’ambiente di vita. Oggi possiamo avere a disposizione due mondi: quello reale e quello virtuale. E siamo diventati molto abili a saltare da un registro ad un altro lusingati da mille motivazioni che hanno come denominatore comune l’immaginata possibilità di distrarci dalla crescente complessità della nostra vita. Ma questa operazione ha dei costi psicofisici molto importanti su cui ogni tanto qualcuno lancia un sos. Traggo dalla lettura di vare fonti e in particolare da un preziosa inchiesta condotta, per la trasmissione Presa diretta dalla giornalista Lisa Iotti (5) e documentata in un suo libro, i risultati di studi cognitivi sviluppati presso centri di ricerca di importanti università, in giro per il mondo. Questi dimostrano che la nostra mente quando siamo connessi, perde mobilità, non è disponibile per altre operazioni: e’ letteralmente risucchiata nella realtà virtuale. Perfino la vicinanza dello smartphone disturba i processi cognitivi, perché l’inibizione indotta dall’automatismo associato all’uso del device, implica l’attivazione di molte operazioni cognitive. Inoltre poiché il cellulare ci porta notizie nuove e le novità stimolano ansia paura e stress, è costantemente attivato il nostro sistema limbico. ‘Il risultato è che sul piano cognitivo vengono interrotte le catene sequenziali anche di un semplice compito’. Inoltre gli studiosi hanno messo a fuoco una nuova forma di sofferenza, l‘Information fatigue syndrome’, affaticamento cerebrale dovuto al flusso di informazioni che ci travolge continuamente. Questa sindrome comprende disturbi dell’attenzione, atrofia del pensiero e della capacità di analizzare, filtrare le informazioni, distinguere quello che è essenziale da quello che non lo è, organizzare un pensiero sequenziale e argomentare secondo un processo logico deduttivo. Commenta l’Autrice: ’Come se la nostra mente avesse il sistema immunitario azzerato, senza più anticorpi per filtrare ciò che importante dall’irrilevanza e la ripetizione ‘. In sintesi ‘Da un certo punto in poi l’informazione non è più informativa ma deformativa, la comunicazione non è più comunicativa, ma meramente cumulativa’(6). Riguardo poi all’uso dei social, sappiamo da questi studi che ‘quanto più le persone condividono sui loro account gli eventi che hanno vissuto e le emozioni che hanno provato tanto meno le ricordano con precisione. Come se la memoria dei nostri schermi e quella neurale seguissero percorsi differenti, quindi come se una parte della nostra mente si collocasse fuori del nostro Sé’. A proposito della plasticità cerebrale, è utile ricordare che ogni esperienza che facciamo rimodella le nostre connessioni, arricchendole o depauperandole. ‘Però se qualcosa non la usiamo più la perdiamo. Dunque ‘ogni volta che assegniamo ad una macchina esterna una funzione umana, stiamo rimuovendo una capacità dalla nostra vita e dal nostro cervello’. La Iotti descrive i danni prodotti anche dall’uso dei social sulla capacità di arricchire la propria esperienza attraverso le relazioni con gli altri. Sicchè sulla difficoltà che adolescenti e giovani adulti incontrano oggi a strutturare capacità di contenimento e trasformazione delle emozioni, si innesta anche l’indebolimento degli strumenti relazionali e dei processi argomentativi indotti dalle interazioni sui social. ‘Una cascata di parole, insinuazioni, sentiti dire, link, tweet, post, da cui non è quasi più possibile uscire , non dico con una verità, ma almeno uno straccio di fatto attorno a cui costruire un’idea’. I ragazzi che crescono’…non sanno più ascoltare né confutare le opinioni altrui, perché non riescono più ad individuare quali sono i punti che non funzionano nel discorso di un’altra persona. Non hanno gli strumenti perché oggi in rete premiano solo la frase ad effetto, l’aggressività, la violenza verbale le urla…inoltre nelle nostre vite perennemente connesse molto accade al di sotto della soglia della nostra consapevolezza: perché qualcosa sia codificato, bisogna avergli prestato attenzione’.

Abbiamo anche notizie sull’impatto che le nuove tecnologie hanno sulla capacità di registrare, conservare e assimilare informazioni. Le aree del cervello che fissano ed elaborano la memoria lavorano nelle pause. Non c’è nulla che possiamo ricordare che non sia passato per la nostra mente, anche solo per un attimo cosciente che poi può rimanere inconscio, come accade, per esempio, nella nostra crescita quando l’apparato non è ancora maturo per conservare i ricordi. Questa elaborazione la fa la DMN default mode network, che si attiva nello stato di riposo dalle stimolazioni e rende possibile la connettività funzionale intrinseca. La connettività costituisce la base neuronale dall’integrazione psichica. In quella disposizione funzionale si può legare il passato al presente, aprirci al futuro, lavorare a costruire un significato psichico. Inoltre i social a livello emozionale sono una inesauribile piazza di spaccio di dopamina. Il like fu introdotto nel social Facebook nel 2009. ‘Uno dei capi di Facebook Chamat Palihapitiya davanti agli studenti di Stanford nel 2017 dichiarava ‘…Mi sento tremendamente in colpa…gli stimoli di feedback a breve termine, basati sulla dopamina, che abbiamo creato, stanno distruggendo il modo in cui la società funziona: nessuna coscienza civile, nessun senso di cooperazione, disinformazione, falsità…organizziamo le nostre vite attorno a questo senso di perfezione percepito, perché siamo premiati da questi impulsi a breve termine: cuoricini, like, …e confondiamo tutto questo con i valori, e confondiamo tutto questo con la verità’’ (7). Ciononostante continuano impererriti a farci su montagne di denaro!

Insomma vivere in due realtà, saltare dall’ una all’altra produce seri danni alle nostre vite. I danni cognitivi vanno a saldarsi alle difese psichiche consolidando modi di vivere impregnati di sofferenza mentale. A livello psichico saltellare continuamente da una modalità all’altra di esperienza, richiede l’attivazione sistematica e il mantenimento di processi psichici dissociativi, sia orizzontali che verticali. Orizzontali perché dissociamo l’unità corpo-mente, verticali perché attiviamo selettivamente solo i canali percettivi visuali e uditivi. Inoltre nel corso delle nostre giornate operiamo continui switch da una realtà all’altra senza darci il tempo di elaborare le specifiche esperienze, come se passassimo da una casa sulle nuvole a una casa sulla terra senza apparente soluzione di continuità, denegando la differenza fra gli stati del Sé e le emozioni ad essi associate. Il risultato è che sul fondo del nostro Sé lasciamo depositare un precipitato psicomotorio informe e confuso. Sia a livello neurologico che psichico, fare un tuffo nel virtuale e poi riemergere, non è la stessa cosa che tuffarsi in un mercatino, fare spese e poi tornare a casa, perché passiamo dal Sé trasmissivo, come lo definisce Bollas, al Sé centrale. Possiamo pensare al Sé come ad una struttura elastica che può cambiare forma a seconda dei nostri investimenti di attenzione e delle nostre attività. Ma questo stile di vita ne mette a dura prova proprio l’integrità complessiva, anzi direi che tende a strapparlo in pezzi. Infatti la rapidità con cui alterniamo gli assetti e l’eccessiva eterogeneità degli stimoli, ne lacerano la membrana costituita dal sentimento di continuità della nostra esistenza, producendo intense emoraggie di  vitalità. Ci sradica dal terreno psicobiologico originario in cui il sentimento di essere Sé affonda le sue radici. Ci sradica anche dal nutrimento delle relazioni umane reali che solo, nell’interezza di noi stessi, possiamo esperire nella dimensione di incontro con un altro essere umano. L’esperienza vitale di bellezza e di bontà che scaturisce dal sentimento di essere vivi, radicati nella nostra interezza psico-fisica è regolarmente sostituita da stati eccitati, negativamente o positivamente, che tornano a frammentare i nostri pensieri ancora prima che si formino. Tanti atti di violenza occulta autodiretta. Dunque la fuga nel digitale sembra essere un rimedio peggiore del male da cui immaginavamo di poter fuggire.

Siamo inoltre, a causa della grande mole di informazioni e di stimoli e dall’abitudine a transitare continuamente da un registro all’altro, dal reale al virtuale, in uno stato psichico perennemente e fortemente dissociato, poco attento sia alla realtà interna che a quella esterna. Con tutte le conseguenze del caso: prima fra tutte di muoverci come sonnambuli con uno scarso contatto con il reale e con la nostra centrale di significazione interna, appiattiti in maniera adesiva all’aspetto cosale dell’esperienza e soprattutto senza sogni. Per leggere la sofferenza di oggi, e catturare l’oppresso’ dobbiamo dunque prendere come vertice l’attacco costante all’integrità del Sé e alle condizioni che consentono la possibilita’ di vivere esperienze che ne alimentino la vitalità. Questa violenza sotterranea che caratterizza oggi la nostra vita è ancora più pericolosa perché il sentimento di esistenza e di valore di se stessi non è così interiorizzato, ma sembra essere sempre più dislocato fuori di sé da qualche parte o in qualcun altro con cui diventa urgente e sopravvivenziale istituire una configurazione di rispecchiamento confermante. Quando non ci stai più nella pelle, in un contesto di questo genere, la pulsione individuale di appropriazione/sopravvivenza può diventare incontenibilmente violenta. Per esempio nei femminicidi.

Un nodo di questo smarrimento esistenziale dunque intreccia il versante interno e quello esterno della nostra vita. Richiama alla necessità di risanare una relazione produttiva tra le due dimensioni. Sul versante esterno, segnala il bisogno di rieducare l’attenzione per favorire un sufficiente contatto con il reale. Sul versante interno chiede di ripescare il principio di realtà e con esso il contatto con il dolore, la fatica, il limite, il lavoro emotivo.

Infatti il principio di realtà si è svuotato di senso di fronte alla diffusione della logica del’ tutto possibile’ per il desiderio del singolo. Questo indebolimento ha incrementato le operazioni psichiche di diniego e frammentato la capacità di stare in contatto con la realtà esterna, come fonte di informazioni importanti per la possibilità e per le modalità di realizzazione anche dei nostri desideri. La nostra mente finisce per funzionare in modalità on-off sulla spinta del principio di piacere come unica e tirannica motivazione vitale, di cui l’Io si fa garante. L’esito è mortale, e sta alla base della diffusione di violenza sia nella forma agita verso il mondo esterno contro gli Altri che in quella interiorizzata contro noi stessi.

Siccome l’esperienza di ‘essere Sé’ trae alimento da ciò che passa per la coscienza, la funzione che sintetizza le qualità del nostro sentire nelle esperienze reali di incontro umano e non, dobbiamo concludere che è proprio la coscienza il buco nero della vita psichica nella nostra epoca superveloce. Più andiamo avanti, più diventiamo funamboli nella relazione con noi stessi e con gli altri, più andiamo avanti più disimpariamo a sentire non solo il dolore nella stanchezza del nostro corpo e del nostro spirito, ma anche a sentire l’amore nella vicinanza e nella condivisione umana. La facoltà psichica che ci permette di costruire la nostra realtà interna e fa da interfaccia tra questa e il mondo è la coscienza. Il condensarsi della possibilità di fare esperienza parte da essa. Sappiamo però che la coscienza, così come la concepiamo è un dono del nostro impatto originario con la vita. Più precisamente, come ci dice Giampaolo Sasso (10), ‘è un dono che la madre fa al suo bambino’, quando ne rispecchia il sentire, lo legge, restituendo un senso al contenuto espresso e alla relazione che lo ha generato. Ci pensate a quanto il mondo superveloce interferisce, disturba e frammenta oggi la relazione primaria? Coscienza vuol dire il moto verso il senso e il significato che la prole umana porta come bagaglio innato di potenzialità, che ha bisogno di un incontro sufficientemente felice con una Madre: una madre che sta in una Famiglia, che a propria volta trae sostegno e nutrimento dall’appartenenza alla comunità Sociale. Coscienza è il luogo di connessione interno-esterno, esperienza erotica dell’Altro, quindi ‘esperienza dell’Alterità’ e base necessaria per ‘conoscere’ e amare la vita. Anche il gioco, oggi molto valorizzato come via per esprimersi, adattarsi ed elaborare l’esperienza, creare nuove percorribilità, rischia di diventare il ‘panem et circenses’ per la plebe moderna che non governa se stessa e la vita politica: un gioco vuoto di potenzialità simboliche, dove la  creatività rischia di essere confusa con l’abilità di procurarsi sensazioni elazionali di piacere eludendo la fatica, il dolore psichico, la  responsabilità della propria e altrui vita.(8)

L’inquietudine della psicoanalisi

Il mito del mondo che cambia e della psicoanalisi che con esso può sempre evolversi per trovare risposte adeguate a raccoglierne la sofferenza, è un po' come il mito del progresso che tardiamo ad abbandonare.  Oggi siamo chiamati a definire e proteggere i limiti entro cui l’uomo può mantenersi umano e la Psicoterapia Psicoanalitica può continuare ad essere lavoro relazionale volto a conoscere e coltivare il nostro mondo interiore come nostra unica vera proprietà e fonte di creazione di significato del nostro stare al mondo. Oggi siamo chiamati a fare scelte.

Per quanto detto finora, dobbiamo partire dalla differenziazione fra i due ordini di realtà digitale e reale e le caratteristiche del fare esperienza, in generale e in particolare nel lavoro di cura, formazione e ricerca. Abbiamo visto che la pratica di continuo slittamento tra i due ordini di realtà, trasforma il dolore che desideriamo evitare in un quell’impoverimento relazionale e psichico che sfocia in molte delle forme di violenza che tormentano i nostri animi e sflilacciano la nostra società.

Per aiutarci a comprendere che tipo di esperienza viene generata da questa pratica di slittamento, mi vengono in mente le operazioni che facciamo quando ci prepariamo ad un viaggio con l’aiuto Google-hearth. Spesso per accendere e dare forma al nostro desiderio, esploriamo ‘il mondo’ da seduti, scivolando con le dita sul nostro smartphone. Vediamo luoghi, ambienti, rilievi, depressioni, raccogliamo informazioni che costruiscono nella nostra mente mappe di desideri che i luoghi già fotografati promettono di soddisfare. Infine, dopo averlo messo fuori di noi, ce lo riassumiamo come se lo avessi ideato e immaginato. Ma vengono anche in mente i molti che vanno a conoscere il mondo nell’interezza del loro essere. Sono coloro che vanno insieme camminando, passo dopo passo, di borgo in borgo e fanno esperienza di nuovi luoghi. Mossi dalla curiosità per le storie che raccontano e le microculture che incontrano, vanno osservando, guardando, domandando e ascoltando. I camminatori restano nello spazio-tempo reale, accettano le condizioni che consentono di realizzare il desiderio che li ha messi in moto: possono regolarsi, ascoltare il bisogno di fermarsi, esperiscono il limite e la necessità di riposare perché mentre camminano misurando il passo, sentono il proprio corpo, il cuore che batte, il dolore muscolare alle gambe, magari un crampo di fame nello stomaco e arsura nella bocca per la sete. Intanto fanno esperienze nuove e magari in qualche locanda possono gustare un piatto distillato dalla sapienza dell’abitare uno spazio specifico del mondo, fatto con le mani che ne conservano la conoscenza e la offrono a chi vi giunge. Il tutto può diventare una narrazione viva. Quando siamo camminatori facciamo esperienza, quando siamo navigatori di internet accumuliamo immagini e informazioni. Quando faremo un viaggio con questa ultima premessa partiremo già con la mente satura. E, forse, chissà forse per noi l’esperienza si ridurrà a un deja-vue e le miriadi di foto che scatteremo serviranno solo a fornire la prova che ci siamo proprio andati. Non conserveremo il ricordo di un’esperienza che ci ha trasformati; la memoria dello smartphone ne conserverà solo i pixel. Più realisticamente, mettiamo insieme le due modalità, e ognuno ha modo di accorgersi della difficoltà di modularsi, della tendenza ad andare sempre oltre e anche della velocità con cui prevarrà con gli amici il gesto di scorrere le foto piuttosto che raccontare. L’equilibrio è molto difficile e ha un elevato costo mentale perché richiede  tempo e pensiero: ma una strada c’è, si radica nell’attenzione all’Altro, nella curiosità per ciò che sta fuori di noi.  

Oggi dilaga la domanda di cura psicoterapeutica on-line. E poiché intercetta il bisogno formativo e lavorativo delle nostre giovani leve, come formatori abbiamo, il dovere di ‘stare dentro il nostro tempo’ e, come ricercatori, di comprendere in che modo le sollecitazioni reali che provengono da cambiamenti sociali così rilevanti, spingano anche la psicoanalisi a ritracciare i propri confini e noi psicoterapeuti a ripensarne i fattori terapeutici. Dunque è tempo di domande importanti.

Che esseri umani stiamo diventando? come ci difendiamo dalla sofferenza psichica? e quanto a noi psicoterapeuti, che non viviamo nell’iperuranio, come ci stiamo trasformando?  Come le affrontiamo queste difficoltà nel lavoro della cura e nello sviluppo della nostra Società scientifica? E per noi psicoterapeuti qual è il nodo?

Penso che per noi psicoterapeuti il nodo è lo stesso, ma siccome ci organizziamo in piccole società professionali di ricerca, forse possiamo trovare più facilmente qualche rimedio. Attraverso il dialogo reale aperto e curioso fra noi, possiamo costruire più facilmente quelle cornici metapsichiche di cui abbiamo bisogno per trasformare le nostre esperienze in pensiero e sapere attorno all’umano. Abbiamo questa chance che è anche una responsabilità, perché noi facciamo un lavoro di cura della vita psichica.

Mentre mi accingevo a scrivere questo lavoro, mi sono resa conto che per alcuni mesi avevo sentito il bisogno di combattere l’attivazione automatica del nostro sapere sedimentato e degli schemi specialistici che ne abbiamo dedotto. Mi sono trovata a vagare tra molte nuove letture. Oggi, avendo fatto anche fatica a mettere insieme i pensieri che vi sto raccontando, penso che tutto questo sia accaduto non soltanto per una mia motivazione personale. Mi sono piuttosto resa conto che ciò che la cultura del digitale mi stava togliendo, mi spingeva ad una maggiore gruppalizzazione con i saperi dell’uomo e sull’uomo che si sviluppano non solo per alimentare ricchezza e potere, ma per rispondere alle grandi domande di sempre. Superfluo specificare che ho letto libri di carta. Il desiderio di conoscenza e le domande di senso, disseminate tra filosofia, scienze biologiche, fisica, ecologia, ci aiutano a rivitalizzare la nostra mente, a riempire quel vuoto che tocchiamo con mano nella psiche del singolo, nello scollamento fra istituzioni politiche e vita sociale. Dunque a questa condizione centrifuga e frammentante, possono venire in soccorso discipline, differenziabili dal sapere psicoanalitico, ma che nascono sempre dalla mente umana quando si pone di fronte agli interrogativi che incontra da sempre. Il dialogo fra psicoanalisi e saperi limitrofi, non può più essere procastinato, anzi, attraverso l’arricchimento delle risorse associative che ne derivano, può assumere una funzione integrativa e rivitalizzante nelle nostre menti. Se da quando la Sipp è nata, abbiamo tratto dalla pratica clinica di frontiera, la spinta evolutiva del pensiero psicoanalitico, oggi penso che non possiamo solo procedere dalla clinica alla teoria o approfondire le teorie di cui già disponiamo. Abbiamo bisogno di raccapezzarci in questi cambiamenti senza precedenti che ci stanno travolgendo. Siamo di fronte al dilagare irrefrenabile di uno stile di vita che sta scavando, nelle premesse stesse della psicoanalisi e del lavoro della cura, una vera e propria rottura epistemologica. Non possiamo pensare che abitando il centro svuotato del Sé individuale e sociale troviamo materiali nuovi utili per ricomporre un senso costruttivo della nuova umanità che stiamo diventando. Anche il Sé gruppale delle società psicoanalitiche soffre uno svuotamento. Oggi anche i materiali clinici, sono polverizzati nella concretezza, devitalizzati e impoveriti di immaginazione e funzioni oniriche. Nel nostro lavoro clinico, non riusciamo a orientare il nostro ascolto verso la dimensione inconscia della mente, perché nel campo analitico preme materiale psichico non-cosciente, che in quanto tale, come ci insegna Bion, non può neanche divenire inconscio senza un lavoro relazionale trasformativo.  Abbiamo quindi la necessità primaria di costruire e tutelare le condizioni che consentono ‘esperienze di coscienza’, cioè di ‘presenza a se stessi’ nel corso degli accadimenti interni ed esterni che si attivano nella stanza di analisi.  Bollas l’ha chiamata ‘rianimazione’.

Da un po' di tempo stiamo parlando della psicoanalisi in un mondo che cambia, vedi Convegno Sipp del 2015 con la presenza di Bolognini e dell’emergere più massiccio di difese primitive, vedi Convegno del 2018 sul Diniego con Nancy Mc Williams e Clara Mucci. Ma oggi, dopo soli pochi anni, ci sentiamo sopraffatti dalla rapidità di trasformazioni sociali che non stanno più consentendo operazioni di pensabilità. E giustamente oggi ci incontriamo sul tema della Violenza perché la violenza è anti-pensiero e anti-relazione e da questo punto di vista siamo alle strette con la necessità di farci i conti. Oggi siamo qui, intanto per riconoscerci in vissuti di sconcerto, di inadeguatezza e di soverchiamento, ma anche per ritrovare un contenitore gruppale di pensiero che ci possa aiutare. Dalla pandemia in avanti, l’attenzione sociale al disagio psichico è di molto cresciuta e la domanda di cura è aumentata, ma sembra interrogare radicalmente la nostra identità professionale.

 Kaes nel Malessere, dice (11)… ‘Il Disagio considerava la sofferenza di origine sociale cioè quella che trova la propria fonte nella civiltà, oggi 90 anni dopo pensiamo la psiche estendendo lo spazio della realtà psichica non solo al soggetto singolare, ma ai legami intersoggettivi e alle configurazioni di insieme quali gruppo, famiglie, coppie e istituzioni. Oggi concepiamo le sofferenze psichiche che si annodano in questi spazi e nei loro rapporti’.  Ma in poco più di dieci anni, siamo andati oltre perché oggi dobbiamo affrontare la sofferenza psichica che si annida nello sdoppiamento della realtà e dobbiamo inventare nuovi strumenti. Per fare questo dobbiamo riavvicinare la realtà nelle sue parti inquietanti che non riusciamo a raccogliere e spingiamo sul fondo del nostro Sé con tutte le forze.  

E per concludere, vi porto a Bari, piazza del Ferrarese, punto di contatto tra la città vecchia e il Borgo moderno lungo il litorale marino, in essa Spazio Murat, ex mercato coperto del pesce, ora dedicato alle arti visive. Questa estate vi era allestita la personale, dell’Artista contemporanea Valentina Vetturi, intitolata TAILS, acronimo di The Amnesic Incognito Live System.( Come si legge dalla locandina di presentazione: ‘la mostra prende il nome dal software Tails che cancella qualsiasi traccia dell’uso che facciamo del nostro computer’…: ‘L’Artista costruisce un ambiente dove un ronzio subacqueo ci introduce allo spazio espositivo in cui allo sguardo si staglia un paesaggio di tubi neri, segnati da sottili geometrie giallo fluo. I tubi compongono una danza… si arrampicano uno sull’altro, si rincorrono, rendono difficile il passaggio. Tra le fila di questo panorama, alcuni tubi si trasformano in rotondità, sedute che invitano a sostare, sentire. Il paesaggio che si estende lungo il pavimento è rizomatico. La scultura è stata generata a partire da un’immagine prodotta da un sistema di IA. Questo ambiente performativo si nutre dalle tracce che lasciamo nelle nostre interazioni quotidiane e che viaggiano attraverso geografie sotterranee, ricostruendo in scala 1:2000 i cavi che attraversano i mari del pianeta. Spesso percepiti come un sistema invisibile e immateriale, i cavi riaffiorano nello spazio espositivo per ricordarci dell’inquinamento materiale e immateriale delle reti di comunicazioni globali’. (12)

Entrare in quello spazio è stata, per me, un’esperienza molto potente emotivamente. Nonostante nulla si muovesse, la struttura trasmetteva una dinamicità potentissima accompagnata da sonorità lontane, profonde e impastate di frammenti sonori come di voci umane: pareva una Gorgone che stesse emergendo di colpo dalle profondità di un mondo marino abissale e sconosciuto. Mi ci è voluto del tempo per prendere il coraggio di inoltrarmi, camminarci dentro attraverso i passaggi tra una curva e l’altra e fermarmi su uno dei tubi ‘sedile’ che mi hanno tanto ricordato le nostre postazioni domestiche per l’uso di internet.  Si formava uno slargo chiuso fra il passaggio dei tubi in quei punti e nonostante il mio compagno di visita fosse solo in un altro slargo un po' più in là, ho avuto la sensazione di una distanza inattraversabile che mi incuteva paura e sgomento. In un secondo tempo mi sono accorta che i tubi della scultura erano realizzati in cartapesta, un materiale frutto di una lavorazione artigianale antica, trasmessa nelle botteghe da Maestro ad Allievo. La cartapesta si ottiene lavorando un impasto di acqua, carta e farina che asciugandosi conserva la memoria del lavorio delle mani dell’artigiano. Un materiale  di cui avere cura perché si scioglierebbe se fosse immerso nell’acqua.   

L’allestimento della Vetturi che porta all’attenzione la realtà digitale sommersa cioè il suo hardware, è situata dentro uno spazio che porta tanta storia, inclusa quella della vita del borgo antico e del suo rapporto con il mare e la sua vita. L’opera trasmette un richiamo potente al visitatore perché cominci a pensare il suo rapporto con la tecnica, come uno strumento specifico creato dalle sue mani per un uso che possa cooperare a mantenere la vita. Noi psicoterapeuti potremmo dire che l’Artista riporta a galla la dimensione psichica ’oppressa’ con il suo gorgoglio di sonorità che paiono frammenti di lontane voci umane, perché possa essere riportata in un contesto condiviso e riprendere il suo posto nella narrazione dei tempi che cambiano: con l’avvertimento ‘fluo’ che senza cura tutto può essere distrutto.

Note

  • Kaes,R. (2012) Il malessere. Borla, Roma 2013 90
  • Bollas, C. (2018) L’età dello smarrimento. Senso e malinconia. Cortina Milano, 2018 , 89.
  • Lovelock,J (1979) Gaia. Nuove idee sull’ecologia. Bollati Boringhieri . Torino, 1981
  • Natoli, S. (2022) Il posto dell’uomo nel mondo. Feltrinelli, Milano
  • Iotti, L. 8 secondi, viaggio nell’era della distrazione 92, 
  • Iotti, L. 8 secondi, viaggio nell’era della distrazione 123,
  • Iotti, L. 8 secondi, viaggio nell’era della distrazione. il Saggiatore, Milano 2020 161
  • Byung-Chul Han (2011) Topologia della violenza. Nottetempo, Milano 2020
  • Edelman G (1992). Sulla materia della mente. Adelphi, Milano 1993
  • Sasso, G. (2011) La nascita della coscienza. Astrolabio, Milano
  • Kaes,op.cit. p.196
  • Vetturi, V. Tails, Spazio Murat, Bari, 2023

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