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Salvatore Capodieci. Psicoterapia psicoanalitica e transgenderismo

Introduzione

Negli ultimi vent’anni gli psicoterapeuti hanno assistito – in un numero crescente di loro pazienti – a un profondo cambiamento per quanto riguarda l’identità di genere, ovvero la percezione che si ha di sé e del proprio essere maschio o femmina. Molte persone sperimentano e definiscono il proprio genere e la propria sessualità in modi che sono molto più variegati rispetto a quelli di maschio o femmina, gay o etero e alcuni, infine, scelgono di non usare nessuna di queste ‘etichette’ andando oltre il cosiddetto “binarismo” di genere.
Questa modalità è maggiormente riscontrabile nei pazienti più giovani che, rifiutando le assegnazioni “binarie” di genere, ne propongono di più fluide e sfumate. Non identificarsi in un genere non è vissuto in termini conflittuali ma, piuttosto, come l’espressione di un Sé autentico. Questa maggiore accettazione di identità di genere non tradizionali ha incoraggiato, anche chi aveva delle resistenze a fare coming out, a condividere esperienze e sofferenze dovute all’essere stati “non-binary” per tutta la loro esistenza.

Nel dicembre del 2021 l’American Psychoanalytic Association (APsaA)[1] ha votato per ribadire il proprio impegno per la non discriminazione nei confronti delle identità di genere e per modificare gli standard del training per i candidati della Società Psicoanalitica; questi ultimi sono stati ampliati e resi significativamente più inclusivi. L’identità di genere e/o la preferenza sessuale sono adesso intese per l’APsaA come una delle caratteristiche delle identità di una persona al fianco di altre come età, religione, razza, origine etnica e stato socioeconomico.

La policy dell’American Psychoanalytic Association ha come obiettivo che nessuno possa essere escluso dalla candidatura o discriminato sulla base di età, sesso, orientamento sessuale, affiliazione religiosa, razza, origine etnica, stato socioeconomico o condizioni di disabilità. (APsaA, pp. 9-10)

I candidati sono tenuti a lavorare con casi che riflettano una diversità di caratteristiche di identità che includono, ma che non si limitano, genere, orientamento sessuale, età, religione, razza, etnia, cultura, condizioni di disabilità e stato socioeconomico.  (APsaA, pag. 11)

Questi nuovi standard di formazione riflettono il riconoscimento, da parte dell’APsaA, del significativo impatto psicologico che tutte le caratteristiche identitarie hanno sullo sviluppo della personalità. L’aspettativa è che uno psicoanalista diventi consapevole e sensibilizzato su come questi aspetti dell’identità si manifestano in un paziente e in che modo abbiano strutturato il suo sviluppo psicologico. Gli analisti devono, inoltre, essere addestrati a sentirsi a proprio agio nell’esplorare psicoanaliticamente come le varie caratteristiche dell’identità interagiscano influenzando l’esperienza cosciente di un individuo, i sentimenti e i conflitti inconsci (Teusch 2023, 12-13).
La definizione di genere, sulla base del solo sesso anatomico, non descrive più per molti pazienti la propria esperienza di genere e quest’ultimo non risulta più predittivo di particolari tratti psicologici. Queste considerazioni indicano che ci si trova a un nuovo punto di svolta rispetto alla ristretta e spesso pregiudizievole visione di genere. Diventa così importante per uno psicoterapeuta psicoanalitico accrescere la propria conoscenza e l’empatia nei confronti della varietà di identità di genere di colleghi e pazienti, consapevoli di quanto sia importante evitare di arrecare nuovamente danno – come era successo per l’omosessualità – se si resta esclusivi e discriminatori, e/o patologizzando coloro che non rientrano nella tradizionale definizione di genere.

Rachel Blass ha scritto nel 2020 l’articolo “Introduction to ‘Can we think psychoanalytically about transgenderism?’” proponendolo come un’occasione di discussione e formazione su questo importante argomento per i lettori dell’International.
Ho pensato di raccogliere questo suggerimento e di presentare alcuni punti dell’articolo in cui l’autrice mette a confronto le diverse posizioni sul transgenderismo di due conosciuti e autorevoli psicoanalisti, come David Bell e Avgi Saketopoulou.
Il primo, ex presidente della British Psychoanalytic Society e consulente psichiatra della Tavistock dove guida l’Unità Fitzjohns per i disturbi più gravi, ha pubblicato e tenuto conferenze sullo sviluppo dei concetti psicoanalitici, sulla psicosi e sui lavori di Freud, Klein e Bion. David Bell è uno degli psichiatri del Regno Unito maggiormente esperto in materia di accoglienza e migrazione e, negli ultimi anni, della riflessione sulla disforia di genere nei bambini.
Avgi Saketopoulou insegna al programma di post-dottorato in psicoterapia e psicoanalisi dell’università di New York. È anche docente presso il New York Psychoanalytic Institute, il William Alanson White e in altri istituti analitici, dove insegna ai Corsi su sessualità e genere infantile. Fa parte del board di The Psychoanalytic Quarterly, Psychoanalytic Dialogues e Studies in Gender and Sexuality.

Due posizioni a confronto

David Bell nel suo articolo, intitolato “First do not harm”, che si può tradurre in “Primum non nocere”, solleva degli interrogativi sull’attuale tendenza che vede, nella mancanza di congruenza tra la percezione della propria identità di genere e quella del proprio sesso alla nascita, un problema principalmente fisico ovvero un problema con il corpo che può essere modificato attraverso procedure mediche. Questa visione, secondo Bell, minimizza il ruolo dei fattori socio-culturali e psichici che sono alla base dell’identità di genere e la possibilità che quest’ultima possa essere rimodellata attraverso un cambiamento psichico piuttosto che attraverso quello sul corpo. Questo atteggiamento della contemporaneità pone dei limiti al ruolo della psicoanalisi nel pensare al transgenderismo e su come affrontarlo.
Le riflessioni di David Bell, considerate da alcuni come irrispettose e persino immorali, originano dalle sue esperienze con bambini piccoli che chiedono la “transizione” e che, a suo avviso, la ottengono troppo velocemente, sia a causa dei limiti dei servizi di salute mentale sia per la mancanza in loro di un adeguato lavoro psicoanalitico. Le posizioni di Bell portano ad andare oltre alle questioni specifiche del lavoro con bambini in contesti prettamente psicoanalitici e sollecitano questioni fondamentali legate alla comprensione analitica del transgenderismo e al lavoro psicoanalitico con le persone che desiderano la transizione.

Avgi Saketopoulou sostiene – nel suo articolo “Thinking psychoanalytically, thinking better: Reflections on transgender” – che nel dibattito psicoanalitico sul transgenderismo un primo passo da compiere consiste nel definire cosa costituisca la “pratica psicoanalitica”. La maggior parte degli analisti – sostiene Saketopoulou – sarebbe d’accordo sul fatto di non fare interventi miranti a conformare i pazienti su alcune nozioni preconcette di normalità o a incoraggiarli a parlare di argomenti relativi al genere o altro. Questo significherebbe considerare lo psicoanalista come un terapeuta che fa pressioni sul paziente transgender affinché discuta in seduta di questioni relative al genere o che riguardino il cambiamento di sessualità, genere o percezione del corpo oppure, in un modo o nell’altro, indaghino le opinioni dei pazienti su queste tematiche. Non si può non essere d’accordo – continua la Saketopoulou – sul fatto che lavorare in questo modo non sia analitico e che risulti, in ogni caso, una modalità non auspicabile in una psicoterapia. Per una discussione sul transgenderismo rimane fondamentale che lo psicoanalista abbia un atteggiamento riflessivo di ascolto e che promuova nel paziente la comprensione di se stesso, l’integrazione e la sua crescita, ovunque ciò possa portarlo.

Un altro passo importante per promuovere un dibattito sul transgenderismo – continua Saketopoulou – consiste nel sottolineare quanto sia complessa la riflessione psicoanalitica sul genere. Nella storia della psicoanalisi sono presenti varie posizioni ma una linea di pensiero ha comunque sempre ribadito la nozione di fluidità del genere sostenendo che la natura umana può far sì che chi è un uomo, dal punto di vista biologico, possa sentirsi donna e viceversa e che questa percezione possa modificarsi nel tempo. Questa idea è contenuta nella nozione di bisessualità di Freud, così centrale nel pensiero psicoanalitico fin dall’inizio e che, per generazioni, è stata riconosciuta nel materiale clinico relativo al corpo e all’esperienza di Sé. La fluidità è anche legata all’elaborazione psicoanalitica di fantasie di mascolinità e femminilità, ai ruoli e alle relazioni familiari, alle parti del corpo e alle loro funzioni, che danno molteplici significati all’essere uomo o donna. È il riconoscere questa complessa fluidità che permette di considerare in che direzioni si sia evoluto il pensiero contemporaneo sulla tematica del genere.

Rachel Blass riporta nel suo articolo quattro punti controversi tra le posizioni di Bell e della Saketopoulou che, per molti aspetti, risultano interconnessi tra loro.

  1. La natura dell’evidenza: la posizione della Saketopoulou sembra suggerire che gli attuali sviluppi sul transgender abbiano chiaramente fornito nuove evidenze alla tradizionale concezione psicoanalitica sul genere, considerato in ultima analisi come qualcosa di biologicamente determinato; evidenza che cambia il significato e l’importanza della transizione. Tenendo conto di queste evidenze – sostiene Saketopoulou – si sarà in grado di “pensare meglio”. Alcune delle prove a cui Saketopoulou fa riferimento sono legate al crescente numero di esperienze segnalate da analisti e pazienti transgender riguardo, ad esempio, a distress e benessere vissuti in circostanze diverse.

Bell mette in dubbio tali evidenze, nonostante siano numerose e convincenti, specialmente se si tratta di bambini (da cui il titolo del suo articolo “First do not harm”). Egli solleva interrogativi sul ruolo delle scoperte scientifiche in questo ambito, indipendentemente da quanto possano essere fondate o numerose.  La concezione di genere è cambiata per molte persone – questo è un dato di fatto – ma il ruolo delle nuove prove nel determinare questo cambiamento è trascurato, afferma Bell, nonostante i numerosi articoli scientifici a cui la Saketopoulou fa riferimento.
Ci si può allora chiedere: che tipo di prove potrebbero (anche ipoteticamente) cambiare le nostre nozioni sul genere? Bell indica che vari fattori, come il rinforzarsi di una visione materialistica della persona e il ruolo della tecnologia nella nostra società, influenzano il cambiamento del concetto di genere. L’attuale popolarità di un fenomeno non è garanzia di valore e validità, ma deve attivare un processo che possa arricchire il dialogo e la comprensione.

  1. Il valore delle affermazioni consce sull’identità di genere: nonostante Bell e Saketopoulou riconoscano l’impatto delle influenze inconsce sull’identità di genere che viene dichiarata dal paziente, danno però un diverso peso alle affermazioni consce. Saketopoulou sostiene che la mancata accettazione della dichiarazione espressa dal paziente rappresenta un atteggiamento denigratorio da parte del terapeuta. Questo sembra rifarsi al fatto che la Saketopoulou consideri la dichiarazione del paziente in qualche modo determinante per la sua identità di genere e che il lavoro di analista consiste nel seguire il paziente. Bell se ne differenzia perché ritiene che sia importante distinguere tra riconoscere l’esperienza del paziente e l’accettarla o il confermarla.

Questa distinzione potrebbe essere maggiormente più chiara quando il paziente mette in atto un atteggiamento autocritico. Alcuni analisti potrebbero essere d’accordo sul fatto che il rispetto del paziente richieda di far proprio il genere in cui si identifica, mentre non dovrebbero sentirsi obbligati ad adottare identità fortemente auto-denigratorie espresse dall’analizzando che, ad esempio, chiede di essere chiamato con un soprannome che lo sminuisca anche se si identifica con esso. Ciò sarebbe particolarmente vero se il soprannome contraddice la realtà oggettiva (ad esempio, un’anoressica che si presenta con il soprannome di “Cicciona”). Il rispetto del paziente è in quest’ambito una questione complessa. Questo punto è legato al successivo.

  1. Come è vista la scelta di genere: leggendo gli articoli dei due psicoanalisti ci si potrebbe chiedere fino a che punto il genere viene presentato come un aspetto statico e definito o come qualcosa di più dinamico e che viene scelto dal soggetto.

Saketopoulou presenta una nozione di scelta che deriva dalla libertà dell’individuo di dichiarare la propria identità di genere e di modificarla, anche grazie alla legge che consente la transizione. Di conseguenza, critica implicitamente Bell per aver pensato al genere in modo limitato e statico, basandosi su quello che lei considera essere una sua sopravvalutazione del dato biologico.
Bell, al contrario, presenta una visione di libertà e fluidità che, secondo il suo pensiero, deriva dalla ricchezza di esperienza inconscia su genere e ruoli di genere ricavate dalla sua lunga esperienza. Secondo questa prospettiva la posizione della Saketopoulou può risultare come quella più statica e limitante dal momento che considera il genere come qualcosa di oggettivamente conoscibile, che deve solo essere scoperta e, in particolare, affermata in modo conscio.

  1. Principi fondanti e comprensione analitica: questa questione è la più delicata e complessa che non può essere portata a riflessione in un modo troppo sintetico senza rischiare che risulti inadeguata. Come sottolineato prima è comunemente riconosciuto che la pratica psicoanalitica non debba intervenire sulla definizione di normalità o sul far sì che ci si debba conformare ad essa; è, tuttavia, necessario che qualche nozione di ciò che risulta fondamentale ed essenziale per la natura umana, ovvero di ciò che può essere indicato come il “principio fondante” della natura umana, sia presente come background di qualsiasi comprensione e processo di integrazione dei significati che sottostanno alle tematiche di cui la psicoanalisi di fatto si occupa.

Ad esempio, se un paziente parla dell’intenzione di avere 20 figli, potremmo interrogarci sul significato che questo assume per lui in modo diverso da come faremmo se il paziente ci parlasse del suo desiderio di avere un figlio o di trovare un partner. In tutti i casi, lo faremmo interrogandoci sulle dinamiche che entrano in gioco proprio in questo individuo senza incoraggiare comportamenti di qualsiasi genere. Lo sforzo di comprenderne e integrarne il significato sarebbe comunque, nel caso del paziente che voglia diventare il padre di un clan, legato al chiedersi il perché. Questo ha a che fare con ciò che consideriamo fondamentale relativamente a bisogni e desideri umani.

Brevi considerazioni sulle diverse posizioni psicoanalitiche sul transgenderismo

Le opinioni di Bell e Saketopoulou divergono molto su ciò che è considerato fondamentale quando si tratta della questione del transgenderismo e, più specificamente, della transizione. Mentre per Saketopoulou cambiare il proprio corpo per adattarlo a un certo tipo di concezione dell’identità di genere rientra nella gamma di una buona espressività della natura umana, per Bell non sembra essere così (tranne in circostanze eccezionali). Bell si interroga, quindi, su quella domanda che Saketopoulou ritiene non si debba fare e cioè: “Perché questa persona vuole fare la transizione”?
Come si può determinare ciò che dovrebbe costituire il principio fondante della psicoanalisi?
Proviamo a rifletterci con l’aiuto di Rachel Blass che, nel suo articolo, sostiene che si tratta di una questione veramente spinosa, che può richiedere ulteriori riflessioni sui nostri assunti di base in merito a cosa voglia dire essere un “essere umano”.

Gli psicoanalisti dovranno o vorranno modificare i loro assunti nella direzione delineata dalla Saketopoulou (come forse molti hanno fatto in relazione all’omosessualità)? Il tipo di apertura nei confronti dell’esperienza del paziente – quella che Saketopoulou descrive come parte integrante della sua posizione analitica – solleva la questione se, in realtà,  non tenda a evitare di chiedersi “perché” in relazione ai suoi pazienti, indipendentemente dal contesto. È davvero così ed è possibile?

Esistono posizioni, prassi o azioni che si possano percepire in contrasto con la buona espressività della natura umana, di cui parla Saketopoulou, e che possono portare o costringere a porsi la domanda per quale motivo qualcuno dovrebbe essere o fare ciò? La Blass sottolinea che questa domanda l’analista deve porla a se stesso e non al paziente.
Bell cerca di “vincere” su questo punto portando l’esempio di una persona che desidera tagliarsi un braccio per adattarsi meglio al senso ideale della sua identità. Spostandosi nel contesto del genere si potrebbero immaginare dei pazienti che decidono di rimuovere i propri genitali (senza sostituirli con altri) per conformarsi alla loro percezione di una identità asessuale.
Attraverso l’esplorazione di questi esempi, possiamo provare a identificare e riportare alla mente situazioni che suscitano in noi la sensazione che ciò che sta accadendo non sia semplicemente insolito o sgradevole per noi ma, piuttosto, non in linea con il modo in cui la natura umana tende a funzionare.
È in questo modo che possiamo iniziare a esplorare la questione del principio fondante della natura umana o come esso sia determinato? E in che modo la nostra capacità di pensare psicoanaliticamente può essere influenzata dalla mancanza di questo principio?

Si può osservare che il modo in cui si considera il transgenderismo implica prendere posizione su molte altre dimensioni fondamentali, non solo sul transgenderismo in sé. Come è già stato scritto, tocca questioni su cosa sia il genere, i suoi limiti e le sue potenzialità, e il ruolo assunto dalle affermazioni consce nel determinarle.
Un altro aspetto significativo è rappresentato dal modo in cui si concepisce il posto occupato dal corpo, così come da altri elementi costituiti da limitazioni, frustrazioni, perdite e lutti presenti nella vita di ognuno; se li si considera parte integrante dell’esistenza umana o meno, e se “sì”, in che modo.

Prendere posizione su queste tematiche è considerato da molti un modo per definire il pensiero e la pratica psicoanalitica come, ad esempio, il fatto che lo sviluppo umano richiede di venire a patti con le inevitabili limitazioni della vita e il lutto per ciò che non si può avere ed essere.
Alla luce di tutto ciò, il dibattito sul transgenderismo può essere visto, non solo come parte di un dibattito più ampio sulle concezioni della natura della persona, ma anche sulla natura stessa della psicoanalisi e sui tipi di nuove concezioni che può far sue e su quelle che invece non può.
Non sorprende quindi che riuscire a sviluppare un dibattito su posizioni diverse, riguardanti la possibilità di pensare analiticamente al transgenderismo, non sia un compito facile.

Vignetta clinica

La vignetta clinica si intitola «Il caso di Giovanni che non è diventato Giovanna. Storia di un errore “epocale”», attribuendo a “epocale” sia il significato di ‘importante’ sia quello di ‘appartenente a una certa epoca’.

Circa vent’anni fa mi aveva consultato un uomo di 37 anni, di quelli che si possono definire “grande e grosso” e con un viso da buono. Vive nella zona rurale di un piccolo paesino in un’antica casa di campagna senza riscaldamento, con un vasto terreno intorno, e distante dalle altre abitazioni. Sia lui che il fratello minore – con il quale ha solo pochissimi rapporti da quando quest’ultimo si è sposato ed è andato a vivere fuori casa – hanno scelto, dopo varie generazioni, di non fare i contadini. Giovanni è, invece, sempre rimasto in casa ad accudire prima la mamma, che è stata malata per lungo tempo ed è morta quando lui aveva 25 anni, e attualmente per dedicarsi al padre – che si occupa dei lavori nei campi e delle “bestie” – preparandogli da mangiare, stirandogli i vestiti e seguendo le faccende domestiche nel tempo libero dal suo lavoro
Prima di consultarmi aveva fatto una decina di colloqui con una giovane psicologa che un giorno, durante la seduta, gli aveva chiesto se poteva raccomandarla perché aveva saputo che nell’azienda dove lui lavora assumevano una psicologa nell’ambito delle risorse umane. Il paziente aveva percepito che, con questa richiesta, sarebbe venuto meno il rapporto professionale e che non avrebbe avuto piacere di incontrarla nel suo ambito lavorativo; in ogni caso poi l’avrebbe abbandonato se avesse vinto un posto di lavoro a tempo pieno. Chiude così la psicoterapia con la psicologa che, comunque, nonostante il suo interessamento, non era stata assunta.

Mi racconta della sua omosessualità che percepisce da sempre e di un episodio molto doloroso. Aveva all’epoca 20 anni e, mentre si trovava in casa, aveva sentito nella camera vicina sua madre che diceva al padre: “Secondo te Giovanni è omosessuale? Preferirei che fosse morto piuttosto che questa cosa possa essere vera!”. Non parlerà mai con i suoi familiari del suo orientamento sessuale.
La sua richiesta di una psicoterapia era finalizzata principalmente a non saper gestire una profonda infatuazione sentimentale ed erotica per il direttore dell’azienda dove lavora da anni come responsabile del settore distributivo. Il direttore era un suo coetaneo, aveva fatto carriera e si era trasferito da Roma con moglie e due figli per dirigere l’azienda. Era un uomo eterosessuale e non risultava per nulla disturbato dal corteggiamento di Giovanni; rispondeva in modo ironico ai numerosi messaggini allusivi o contenenti proposte sessuali esplicite che tutti i giorni Giovanni gli inviava.

Il direttore ogni tanto lo invitava a casa e cenavano insieme con moglie e figli. A volte, quando rientrava in azienda dopo aver giocato una partita di tennis, lasciava la borsa contenente l’abbigliamento sportivo nel suo ufficio. Giovanni prontamente la prendeva e la portava a casa dove, dopo aver passato una notte per lui indimenticabile in cui si masturbava abbracciando la maglietta con l’odore di sudore del suo idealizzato amore, lavava, stirava e faceva ritrovare tutto pulito nell’ufficio del capo il giorno dopo.
Al termine del terzo colloquio Giovanni mi chiede se lo avessi preso in psicoterapia, gli rispondo affermativamente e allora, dopo aver nuovamente voluto essere rassicurato che avremmo iniziato la psicoterapia, si solleva la maglietta e mi mostra sul deltoide della spalla sinistra una grande cicatrice sopra un avvallamento del muscolo di circa 10 centimetri quadrati. Mi spiega che se lo era procurato recentemente e in più riprese con un ferro incandescente per cercare di placare i suoi tormenti per questo amore impossibile.

Iniziamo così la psicoterapia vìs-a-vìs una volta alla settimana e Giovanni, che spesso prepara da mangiare per il gruppo di lavoro dei colleghi cucinando pietanze prelibate e molto costose, riesce a trovare gradualmente un suo equilibrio. Equilibrio dovuto principalmente al fatto che il direttore gli concede, all’incirca una volta ogni venti giorni, una “cinepizza”, come la chiama il paziente, consistente in una serata in cui vanno prima al cinema e poi a mangiare una pizza solo loro due. Questo avvenimento riempie di gioia Giovanni che va a lavorare felice e continua la sua vita accudendo padre e casa. Decidiamo di concludere la terapia dopo circa 2 anni e mezzo.

Un paio di anni fa, Giovanni mi scrive un’email chiedendomi se fossi disponibile a incontrarlo.
Ogni tanto mi ritornava in mente questa persona, così tormentata dal punto di vista sentimentale, e gli propongo un appuntamento. Mi dice che è stato abbastanza bene, che suo padre era morto dopo lunga malattia e che lo aveva sempre assistito, senza bisogno di badanti, anche per l’igiene del corpo. Dopo la morte del padre non ha più visto il fratello, la cognata e i nipoti senza un’apparente spiegazione. Aveva però incrementato la sua vita sociale iscrivendosi a un gruppo di escursionismo che si incontra quasi tutti i fine settimana. In queste occasioni cerca elegantemente di svincolarsi da qualche donna single che lo corteggia dal momento che non ha mai comunicato a nessuno la sua omosessualità
Continua a vivere da solo nella casa di campagna, dove nessuno segue ormai i campi, mentre il bestiame era stato venduto quando il padre si era ammalato. La sua vita sessuale si limita a frequentare qualche uomo che conosce nelle chat per gay; non ha mai avuto rapporti sessuali completi limitandosi a incontri in cui pratica delle fellatio a questi occasionali conoscenti. Si incontra con qualche persona regolarmente, ma gli incontri sono sempre confinati alla sessualità; la maggior parte degli uomini che vede con continuità, precisa, sono gay sposati.
Il motivo di questa nuova consultazione a distanza di tanto tempo è dovuto al fatto che due anni prima era andato via il direttore con cui aveva mantenuto quel rapporto per lui soddisfacente e ne era arrivato uno nuovo di cui, dopo qualche mese, si era invaghito. Le sue tecniche di corteggiamento però non funzionano e il nuovo direttore gli ha scritto che non tollera di ricevere messaggi ambigui e che la loro interazione avrebbe dovuto limitarsi ai problemi di lavoro. Organizzare pranzi speciali per i colleghi non sortisce l’effetto desiderato perché il direttore li diserta.

Questa situazione lo ha fatto sprofondare nella depressione e non vorrebbe più andare al lavoro; attività che ha sempre rappresentato il tempo più significativo della sua esistenza. È proprio in crisi e mi confida che aveva pensato a volte di procurarsi delle lesioni sul corpo, come aveva fatto da giovane. Non lo ha mai realizzato ma, in alternativa, ha ricoperto il suo corpo di tatuaggi: tutti praticati negli ultimi due anni. Mi sottolinea che è sempre rimasto vergine e che ha sempre occasionali incontri erotici con uomini omosessuali a cui pratica rapporti orali.
Se nella prima psicoterapia avevo seguito una modalità di ascolto empatico senza porre al paziente domande sulla sua identità di genere, che non riguardassero quanto lui riferiva, questa volta ho deciso di “thinking better”, come dice la Saketopoulou quando sostiene che il genere è qualcosa di oggettivamente conoscibile, che deve essere scoperto e, in particolare, affermato in modo conscio.
Dopo alcune sedute gli chiedo, quindi, come mai si innamorasse solo di uomini eterosessuali e perché – a differenza della maggior parte dei pazienti omosessuali che seguo in psicoterapia – abbia una vita sessuale così povera, non abbia mai avuto dei rapporti sessuali completi o un compagno stabile.

A questo punto mi racconta che si è sempre innamorato di uomini eterosessuali sin dall’adolescenza e che gli omosessuali non gli piacciono. Quelli che frequenta gli fanno un po’ pena e considera la fellatio una sorta di regalo per il tempo trascorso insieme. Quando gli chiedo quale fosse il rapporto con il suo corpo e in particolare con i genitali, scoppia a piangere e mi risponde che gli ripugna avere un pene e che non si guarda mai i genitali quando fa la doccia. Aggiunge che da piccolo avrebbe voluto essere una bambina e che di fatto si sente una donna più che un omosessuale.

Da quel momento la psicoterapia ha cambiato direzione. Organizza uno dei pranzi speciali e costosi che fa per i colleghi e in quell’occasione dice a tutti per la prima volta di essere omosessuale (“un passo alla volta” … penso io) ed è contento che tutti (specie le colleghe) lo abbiano abbracciato e che continuino a scrivergli messaggi affettuosi. Anche il direttore ha apprezzato questa sua confidenza ed è diventato meno ostile nei suoi confronti. Successivamente parlando con la segretaria è venuto a sapere che il figlio di 10 anni del direttore ha probabilmente una disforia di genere e che lui e la moglie sono molto angosciati e seguono una psicoterapia. La notizia che il direttore avesse delle preoccupazioni importanti lo ha in parte sollevato perché spiega il suo atteggiamento, ma al tempo stesso si è percepito come il fantasma che il direttore vede – pensando al proprio figlio – quando lo incontra.
In una seduta successiva arriva sorridente e riprende il discorso del fatto che a lui piacciono solo gli eterosessuali, cioè i veri maschi. Mi guarda e aggiunge: “Guardi, dottore che a me ogni tanto vengono in mente quei pantaloni di velluto attillati che portava vent’anni fa!”. Scoppiamo entrambi in una risata liberatoria e ci sarebbe stato bene anche un abbraccio se non fosse stato frenato dalle misure anti-Covid, in quel periodo ancora molto restrittive!

Interrompo il racconto della vignetta clinica per allargare la riflessione sul transgenderismo con una domanda sul mio errore “epocale”. Adesso Giovanni, alla soglia dei 60 anni, non se la sente di intraprendere una transizione, ma è consapevole che la sua vita avrebbe potuto prendere una direzione diversa se l’avesse fatta da giovane. Vent’anni fa era però un’altra “epoca”, da poco si era cominciato ad effettuare psicoterapie psicoanalitiche a gay e lesbiche, fino a qualche anno prima considerate controindicate.
Eppure … l’essersi procurato quella profonda cicatrice sul deltoide che aveva asportato una parte del muscolo della spalla, il suo dedicarsi all’accudimento dei genitori e della casa come una “figlia” esemplare, aver subito una sorta di abuso dalla giovane psicologa che voleva essere raccomandata per andare a lavorare nella stessa azienda, i suoi amori impossibili verso uomini eterosessuali … forse tutti questi elementi avrebbero dovuto aiutarmi di più … ma come si diceva: era un’altra “epoca”!

Giovanni comunque sta continuando la psicoterapia, che lo aiuterà a venire a patti con le inevitabili limitazione che pone la vita, elaborando il lutto per ciò che non si può essere o non si è riusciti ad essere.

Considerazioni conclusive

Nell’estate del 1909, durante la navigazione verso gli Stati Uniti, Freud avrebbe detto a Jung e a Ferenczi: “Essi non sanno che portiamo loro la peste!”. Dopo le conferenze tenute in America, nel 1911 grazie al supporto di Freud nacque la Società Psicoanalitica Americana di cui si parlava all’inizio.
Oggi la situazione è decisamente cambiata e sembrerebbe essere il “sociale” che porta la “peste” alla psicoanalisi!

Ho fatto per la prima volta questa considerazione nel 2017, dopo aver letto l’articolo di Eyal Rozmarin “The Social is the Unconscious of the Unconscious of Psychoanalysis”, pubblicato in “Contemporary Psychoanalysis” all’indomani dell’elezione di Trump nel 2016; quest’ultima in tutto il mondo intellettuale e tra gli psicoanalisti americani aveva causato una sorta di luttuoso sbigottimento.
L’autore sostiene che il “sociale” è l’inconscio dell’inconscio della psicoanalisi nel senso che si colloca in un registro che la psicoanalisi rifiuta di immaginare e che si differenza dall’inconscio che ha storicamente l’obiettivo di scoprire, l’inconscio di pulsioni, relazioni oggettuali e vita familiare. La psicoanalisi è invece – secondo Rozmarin – riluttante a partecipare, sia in teoria che in pratica, alle forze sociali che strutturano il nostro essere e influiscono sulle nostre vite. È così riluttante che il sociale rimane represso all’interno di un inconscio ancora più profondo che scompare completamente alla vista. Nell’articolo Rozmarin cerca di immaginare quali potrebbero essere le argomentazioni di chi segue la psicoanalisi se questa disciplina andasse oltre l’evitamento del sociale.

Le vicende “sociali” in questi anni sono andate aumentando, pensiamo alla pandemia e al lockdown che hanno scardinato i nostri setting abituali, alla tecnologia che ha consentito ad alcune aziende l’“assunzione” di psicologi e psicoterapeuti che seguano pazienti solo online (ad esempio, Unobravo, Serenis.it, AssociazioneAdagio) e alla guerra in Ucraina che comporta una maggiore riflessione sulle emozioni sociali rispetto a quelle individuali a cui si è, per formazione professionale, più abituati.
L’ultima peste è rappresentata probabilmente dal dibattito sul transgenderismo che condensa numerosi aspetti sociali che riguardano principalmente i diritti delle minoranze, il political correctness e la lotta allo stigma e alla discriminazione; condizioni che hanno sollecitato l’OMS a ridefinire la “disforia di genere” spostandola da una condizione di disturbo mentale a un concetto di “incongruenza di genere” e collocandola nel capitolo della “salute mentale” dell’ICD-11.

Questo rende tutto ancora più complesso e, allo stesso tempo, affascinante in questa epoca di esodo … in cui non c’è staticità, anzi, ci si muove moltissimo, senza sapere però dove si arriverà!

Bibliografia

Bell, D. (2020) First do not harm, The International Journal of Psychoanalysis, vol. 101:5, 1031-1038.

Blass, R. (2020) Introduction to ‘Can we think psychoanalytically about transgenderism?’, The International Journal of Psychoanalysis, vol. 101:5, 1014-1018.

Rozmarin, E. (2017) The Social is the Unconscious of the Unconscious of Psychoanalysis, Contemporary Psychoanalysis, 53:4, 459-469.

Saketopoulou, A. (2020) Thinking psychoanalytically, thinking better: Reflections on transgender, The International Journal of Psychoanalysis, 101:5, 1019-1030

Teusch, R. (2023) Introduction, in Shari Thurer (ed.) Beyond the Binary, Phoenix Publishing House, 12-14.

 

[1] Nel 1991 l’APsaA, fondata nel 1911 da Ernest Jones con il supporto di Freud, aveva autorizzato la formazione di psicoanalisti gay. Nel 1992 aveva proibito la discriminazione contro i gay nella selezione dei docenti e nel 2019 si è scusata per aver trattato l’omosessualità come una malattia mentale.

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