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S. Grasso. Convegno Nazionale Sipp 2017. Intercettare l’inconscio nel setting contemporaneo

Relazione presentata al Convegno Nazionale Sipp

Psicoterapia Psicoanalitica: contemporaneità e percorsi di sviluppo

 1 e 2 Dicembre 2017, Roma

 

 

 

INTERCETTARE L’INCONSCIO NEL SETTING CONTEMPORANEO

Silvia Grasso

 

Premessa
Lo spazio-tempo dell’analisi si è modificato, di questo cambiamento, la riduzione della frequenza delle sedute settimanali è l’espressione più visibile, non necessariamente la più pregnante.
La maggior parte dei trattamenti odierni si svolge con una frequenza delle sedute di una o due volte la settimana.
Le tre sedute a settimana sono divenute una rarità, appannaggio quasi esclusivo dei training di formazione per diventare analisti. Quello che può sembrare un paradosso in effetti non lo è: per essere analisti di pazienti che si frequentano poco, più difficili da trattare, occorre essere meglio analizzati, avere un’esperienza più piena della teoria e della pratica attraverso supervisioni accurate.
Se si modifica il ritmo, se il tempo, che analista e paziente condividono, si riduce al tempo di un’unica seduta settimanale, cambia anche lo spazio dell’incontro e la posizione del paziente nella stanza, pur essendo la questione più evidente, forse non sarà la più interessante da indagare.
Il vis-à-vis prende sempre più campo e anche nei casi in cui il lettino resista, lo stare con il paziente in un ritmo più rarefatto diviene uno stare in modo differente.
Se la seduta è un campo di forze generato dall’incontro di due soggetti, allora quel campo avrà una forza e un assetto diversi.
La terapia analitica contemporanea procede più in assenza che in presenza. Mi sembra si possa dire che il setting attuale sia il negativo del setting classico, nel senso che questo termine ha per la fotografia analogica in bianco e nero: il negativo della pellicola fotografica, il bianco al posto del nero.
L’assidua frequentazione analista paziente, la presenza e l’esperienza costante di ritrovamento dell’analista nella seduta, un giorno dopo l’altro, finiva per determinare una presenza che alludeva in modo forte alla costanza dell’oggetto e dunque alla possibilità dell’assenza. Il setting classico si faceva in questo modo garante del ritrovamento dell’oggetto e di un’assenza sostenibile. Grazie “all’assenza in presenza”, la situazione analitica evocava gli oggetti e le relazioni oggettuali, le modalità di funzionamento inconscio, il trasfert.
Il dispositivo analitico è stato concepito come trappola del negativo, attratto nel campo dell’analisi attraverso una sottrazione sul versante percettivo, usando le parole di Cesar e Sara Botella “…si può formulare l’ipotesi dell’esistenza di un’intuizione iniziale in Freud: il bisogno di allestire una cornice che negativizzi la percezione come mezzo indispensabile all’approccio della psiche.” (1) La posizione sdraiata con l’analista fuori dal campo visivo; l’ambiente tanto costante da scomparire; l’ascolto silenzioso, in grado di creare l’illusione dello star da soli in due. All’interno di questa cornice, soprattutto per via delle sue invarianze che fungono da zone di deposito per il funzionamento simbiotico della psiche, che abbiamo imparato a conoscere come base d’appoggio indifferenziata per ogni successivo movimento differenziante (2), si dipana il discorso paziente analista, tessuto di affetti, prima che di rappresentazioni, con tutte le sue lacune, le mancanze, le omissioni.
Questa negativizzazione del campo vale per entrambi i membri della coppia, anche l’analista è deprivato percettivamente per facilitare una modalità regressiva del pensiero capace di pescare anche al di là delle narrazioni del paziente.
L’ascolto dell’analista è principalmente ascolto di ciò che manca nel discorso, ascolto cui si giunge per il tramite dell’attenzione fluttuante, modalità di stare in seduta che lascia spazio all’assetto interiore dell’analista. L’analista nell’incontro con il paziente sta al contempo fuori e dentro di sé, dentro e al di là del discorso che si dipana in seduta.
Questa qualità dell’ascolto analitico, che può tradursi in una punteggiature lieve e un po’ strana del discorso del paziente (eccentrica rispetto alle attese comuni), pone le basi per lo sviluppo, dalla parte del paziente, delle libere associazioni e per l’affioramento di quei pensieri insaturi vicini al preconscio, che costituiscono il materiale psichico intorno al quale inizieranno a prender corpo gli scenari fantasmatici, si organizzeranno i sogni della notte, sollecitati dalle sedute.
E’ possibile, attraverso il dispositivo analitico, ripercorrere le tracce di quel che Green ha descritto come il lavoro del negativo. Sappiamo che egli v’includeva tutti gli aspetti inerenti all’attività psichica tesi alla negativizzazione di un eccesso, quello pulsionale; in primo luogo la rimozione, l’identificazione, la sublimazione, ma non soltanto questo.
L’originalità del pensiero di Green sta più nel secondo aspetto di questo lavoro che egli ha indicato e che riguarda il modo in cui il lavoro del negativo verrà utilizzato “per fini diversi, ma tutti al servizio della disorganizzazione” (3).
Green parte da Freud ma trova una doppia fonte d’ispirazione in Winnicott, quando in Gioco e realtà, parlando delle esperienze traumatiche precoci descrive come conducano “ad uno stato in cui è reale solo quello che è negativo” e in Bion, nella sua ammonizione a non confondere la no-thing e il nothing, la non-cosa che allude sempre alla cosa, attraverso la sua assenza e il niente, l’inesistente. Con il lavoro del negativo descrive una vasta gamma di operazioni psichiche che si estende dalle omissioni della rimozione e delle strategie difensive a essa direttamente collegate, fino alle forme sempre più radicali e riuscite di cancellazione della rappresentazione: la negazione, il diniego, la forclusione, l’allucinazione negativa. A parte ciò ci offre, cosa di non poca rilevanza, la visione d’insieme di un affresco teorico-clinico che partendo da Freud passando per Ferenczy, Abraham e Klein, arriva a Winnicott e Bion.
Sappiamo che nelle forme estreme di questo lavoro psichico ciò che fa problema, scompare senza lasciare tracce. Ne esita una lacuna, un vuoto, uno strappo: il bianco è talora l’unica soluzione per una sopravvivenza, anche a patto di gravi mutilazioni psichiche. In questi casi, laddove avrebbe dovuto esserci qualcosa non c’è nulla, talvolta non ci sono le parole, talaltra ci sono ma sono figlie dell’intelletto, prive di colore, viene ad essere scompaginata la tessitura degli affetti: laddove si dovrebbe provare dispiacere non si trova nulla.
L’ascolto analitico si sintonizzerà sui movimenti di legame e di slegamento, essenza dei movimenti pulsionali di vita o di morte. Coglierà nelle sfumature del discorso del paziente quella “funzione oggettualizzante” che trova nella capacità stessa di realizzare e mantenere degli investimenti significativi, l’essenza delle pulsioni di vita (4).
Allo stesso modo non potrà ignorare il soffio gelido della “funzione disoggettualizzante” lavoro di sottrazione silenzioso della pulsione di morte, il cui unico scopo è lo slegamento, liberarsi dell’oggetto e dell’investimento stesso, in un funzionamento psichico teso ad azzerare l’eccitazione facendo prevalere il principio di Nirvana su quello di costanza- piacere (5). La funzione disoggettualizzante è il modo che l’apparato psichico trova per eludere completamente il lavoro del lutto.

La cornice analitica contemporanea
La clinica contemporanea deve risposte al malessere dei suoi tempi. Il malessere di oggi attiene alla patologia del limite: “Le parole chiave dell’ipermodernità sono: iperstimolazione, ipercomunicazione, ipersviluppo, iperconsumo, proliferazione. I loro correlati: sregolazioni e deregolamentazioni generalizzate, polverizzazione dei limiti” (6). Una clinica che deve confrontarsi principalmente con il terrore della dipendenza e del legame. In queste condizioni la situazione analitica è capovolta, il negativo di quella classica: occorre lavorare con il minimo di presenza reale, che corrisponde al massimo della presenza tollerata dal paziente, sviluppando al massimo la capacità di fornire una presenza analitica nel poco tempo a disposizione.
Presenza analitica che dovrebbe riuscire a essere allo stesso tempo intensa e discreta, presenziare il campo senza rivelarsi troppo, cogliendo i momenti topici in cui l’intervento dell’analista non può essere rimandato, meno che mai se il rinvio è alla settimana successiva, ma attendendo in tutti gli altri casi.
Si è parlato dell’importanza di fornire un’interpretazione nel momento in cui possa essere accolta e non prima, per evitarne l’effetto traumatico, non si è parlato abbastanza invece delle conseguenze di una mancata interpretazione, degli effetti di contenimento che l’interpretazione può avere.
Occorre dar prova di una presenza stabilizzante, ove le frustrazioni, inevitabili, siano ridotte al minimo tollerabile, senza scomparire, pena la ricaduta in un gioco seduttivo, che esiterà in un vicolo cieco.
Una presenza capace di divenire il punto d’ancoraggio, talvolta realmente l’unico nelle vite frenetiche dei pazienti, di una possibilità di stare presso qualcuno senza fare nient’altro che non sia pensare insieme, senza cercare e/o trovare vie di fuga dal pensiero e dalla relazione. La rilevanza etica di questo progetto balza agli occhi.
L’analisi classica, al netto delle illusioni che ne hanno anche decretato i fallimenti, aveva il compito di cercare di restituire ai pazienti un maggior grado di verità su se stessi, riconoscere i conflitti, per depotenziarli, far si che la “comune infelicità” prendesse il posto della sofferenza nevrotica, per usare le parole di Freud.
L’analisi contemporanea, uso il termine senza fare alcuna distinzione con la psicoterapia analitica, sembra avere il compito di restituire i pazienti a una dimensione più umana, sottraendoli al consumo vorace di rapporti e di esperienze, recuperandoli al rispetto di se’ stessi e degli altri, al rispetto delle differenze, alla tolleranza dei confini e dei divieti. Non sembra una differenza di poco conto.
Nelle situazioni analitiche attuali, questo progetto, che potremmo definire del farsi garanti della possibilità di una presenza, viene costruito progressivamente e alla distanza massima dal paziente, che è contemporaneamente la massima per lui tollerabile e la minima perché la situazione analitica si compia.
Il progetto viene tessuto prevalentemente in una situazione di lontananza, a una maggiore distanza dal paziente, per l’incapacità dello stesso di sopportare livelli di presenza che alludano in modo troppo palese all’evidenza della separazione e della differenza.
C. e S. Botella insistono sulla capacità degli analisti di sopportare una certa dose di regressione del pensiero, dal versante rappresentativo a quello percettivo-allucinatorio, per poter avvicinare i pazienti, borderline e narcisisti, in cui l’area traumatica del deficit, sottende e infiltra l’area conflittuale.
Descrivono la necessità di contemplare una cornice analitica in cui sia possibile sperimentare, la “distinzione senza separazione” e “l’unione senza fusione”. Ci sembra possibile affermare che questa dotazione gli analisti contemporanei debbano averla anche con i pazienti più nevrotici, curati all’interno di cornici analitiche con frequenze ridotte.
La prima parte di ogni analisi contemporanea sembra legata alla costruzione della situazione in cui un’analisi possa avvenire.
La cornice analitica si dilata, talora fino al limite del punto di rottura, non si limita al momento in cui incontriamo il paziente. Essendo molto ampliato il tempo dell’assenza del paziente dai nostri studi, lo spazio analitico includerà molto di più il “fuori dalla seduta”. Basti pensare alla frequenza delle comunicazioni telefoniche e dei messaggi, per spostare o concordare nuovi appuntamenti, a quanto siano presenti “gli impegni esterni del paziente” nei patti terapeutici.

Un paziente telefonò a distanza di anni dalla conclusione di un trattamento analitico per avere un appuntamento, l’analista nell’offrire un’ora si sorprese di trovarsi a pensare che in quell’orario il paziente avrebbe potuto avere la consueta partita di calcetto.

L’ascolto analitico
La realtà esterna ha molto più spazio nelle sedute e l’ascolto dell’analista sarà determinante per fare la differenza tra un trattamento analitico e un trattamento di altro tipo, cui non ci si sottrarrà se non si può fare altro, ma di cui non sfuggirà la differenza.
La qualità analitica dell’ascolto prevede una capacità di cogliere il senso nascosto, di avviare un processo di traduzione che prenda le mosse dal riconoscere le emergenze, nel materiale della seduta, del funzionamento inconscio del paziente, per arrivare a definirne, provvisoriamente, come in un cantiere sempre aperto, le peculiarità.
L’ascolto analitico è ascolto dell’elemento perturbante, dell’estraneo nel familiare.
Se il discorso del paziente è denso di elementi concreti, la sospensione dell’attenzione nell’ascolto dell’analista sarà un obiettivo più difficile da raggiungere.
L’uso del lettino, laddove la situazione lo consenta, anche nelle terapie a frequenze ridotte al minimo, può rendere meno incombente la presenza del paziente, essere utile per ridurre la velocità, abbassare la tensione.
La narrazione del paziente inizierà a proiettare sullo scenario della seduta i primi abbozzi di un disegno complesso ed enigmatico.
Cominceranno a formarsi dei nessi, inizieranno a delinearsi le figure di un bisogno, di un legame o di una tendenza allo slegamento, di un desiderio o del suo depistaggio, del modo in cui il paziente va loro incontro o le evita. I fatti raccontati cominceranno a tradursi in un romanzo familiare, inizierà a intravedersi la trama intersoggettiva inconscia, le figure di una gruppalità intrapsichica (7).
Ad un tratto però l’ascolto dell’analista s’impiglierà in un dettaglio strano, qualcosa che stride.
Nel vis-à-vis l’analista si troverà spesso frastornato e scisso tra una specifica attitudine all’ascolto e l’energico richiamo al qui e ora delle questioni sollevate dal discorso del paziente, che sembrano spesso avere il carattere della domanda cui serva una risposta urgente. Le domande del paziente riguardano sempre più il “cosa fare” in questa e quell’altra circostanza esterna.
Non lasciarlo cadere, portarlo all’attenzione potrà dar vita a un nuovo discorso, meno scontato ed esternalizzato del precedente, meno tangenziale al mondo interno del paziente. Dalle parole rimaste “impigliate” nella mente dell’analista può nascere l’abbozzo di una costruzione analitica.
La costruzione, descritta da Freud come sistema per colmare le lacune insuperabili della memoria, non deve per forza riguardare eventi del passato. Può esitare da un tentativo di colmare le omissioni del discorso che il paziente va facendo sulla propria vita attuale, le proprie relazioni, quando gira, con le parole, intorno alle cose che sa, per non metterle in discussione, spaventato dall’ignoto, abbarbicato ai contenuti di pensiero familiari che, tuttavia, non consentono di comprendere davvero ciò che sente o le difficoltà in cui si trova.
Talora una parola strana, un tono di voce inusuale, possono aprire una strada. L’analisi a frequenza ridotta, mette l’analista molto più duramente al lavoro di quella classica, l’analista dovrà essere più pronto a cogliere l’occasione, capace di passare a un altro registro di ascolto, più attento e interlocutorio, ponendo le basi per la costruzione dei primi scenari.

Ma le cose possono essere molto più dure di così.
Talora il discorso del paziente sembra più vuoto di forme, addirittura desertificato, opaco, privo di risonanze affettive, di ogni forma d’investimento: in questi casi la fatica mentale dell’analista può diventare molto acuta.
In questi casi l’analista è chiamato a un lavoro di elaborazione del materiale della seduta che per certi versi somiglia alla tessitura di un sogno della veglia, fatto con la convergenza di due menti, una delle quali ha il compito di promuovere il preconscio nell’altra, attingendo alle proprie risorse .

Se da un lato il sogno origina dalla spinta alla realizzazione di un desiderio, dall’altro è frutto di una necessità di raffigurazione che ha un indubbio valore anti-traumatico per la mente, grazie al fatto di essere molto vicina all’allucinatorio, la prima soluzione che la psiche trova per far fronte all’assenza dell’oggetto.
Quando il paziente non rappresenta, l’analista deve poter fare affidamento sulla propria capacità di creare una figura carica di affetti, nata proprio dallo stato d’impasse della seduta, dall’impotenza a rappresentare, da offrire al paziente per colmare la lacuna e far ripartire il processo associativo. Usando le parole di Freud a proposito della costruzione in analisi, se il lavoro di raffigurabilità portato avanti dall’analista sarà capace di suscitare nel paziente un convincimento, esso avrà lo stesso valore di una traccia mnestica.
L’effetto immediato sarà duplice, da un lato un allentamento dello stato d’angoscia dall’altro un riavvio dell’attività mentale: un nuova traccia si paleserà.
Il lavoro analitico contemporaneo è un lavoro di piccoli passi, reso più agile e creativo dal crollo dell’illusione di completezza dell’analisi. Si tratta di un lavoro teso soprattutto ad avviare un funzionamento capace di dare senso, promuovere il preconscio, avviare una possibilità di traduzione che si è bloccata o che non ha mai potuto avviarsi.
Da qualunque livello si parta, ogni grado di separazione in più raggiunto, fosse anche solo uno, sarà un buon risultato e, se non altro, un risultato da cui ripartire per la successiva tranche di analisi.

L’avvio di una cura
Resoconto clinico che verrà soltanto letto.

Penso che il materiale clinico si commenti da solo, sembra possibile intravedere il lavoro analitico che verrà, come una finestra aperta su un panorama, di cui non si percepiscano i dettagli: se ne intravedono le alture e gli avvallamenti, si avverte la temperatura dell’aria, si intuisce se si tratterà di un ambiente più o meno abitato da umani. Infine si sa che si sono realizzati degli accecamenti e che una certa quota di disvelamento si renderà necessaria. Quanto a lungo andrà avanti questo lavoro e quanto esaustivo potrà essere non è dato saperlo, ma non è importante.

Concludo con le parole di Andrè Green tratte dal suo ultimo libro:
“La teoria delle pulsioni di Freud è stata ingiustamente opposta a quella delle relazioni oggettuali. Ora questa due concezioni non sono antagoniste, e si completano l’una con l’altra, dato che l’ultima teoria delle pulsioni, che include le pulsioni di vita e d’amore, implica l’esistenza dell’oggetto. Essa rende conto della forza che ci anima e che ci spinge in avanti, mentre il ripiegamento su di sé, la depressione o il disinvestimento schizoide mostrano che essa può essere neutralizzata, perduta più o meno temporaneamente o gravemente alterata in misura definitiva… L’amore della vita è il nostro bene più prezioso. È da questa parte che il lavoro dell’analista svolge il suo combattimento…Il neonato ha bisogno d’aria, di calore, di nutrimento e acqua. In questo non differisce da altri animali. Ma ha bisogno dell’altro simile per fondare le basi della sua gioia vivere, della condivisione dell’amore, e delle premesse del senso. L’amore e il senso sono forse una sola e stessa cosa per l’uomo…Lasciamo l’ultima parola a Freud. In Psicologia delle masse e analisi dell’Io, ricorda che è ”l’Eros che tiene unite tutte le cose del mondo” (8).

 

Bibliografia

(1) C. e S. Botella, 2001, La raffigurabilità psichica, 2004, p. 21, ed Borla, Roma
(2) J.Bleger, Psicoanalisi del setting psicoanalitico in Setting e processo psicoanalitico a cura di C. Genovese.
(3) A. Green, 1993, Il lavoro del negativo, 1996, p.25, ed. Borla, Roma
(4) A. Green, 1993, Il lavoro del negativo, p.119, ed. Borla 1996, Roma
(5) A. Green, 1983, Narcisismo di vita Narcisismo di morte, p.109, ed. Borla, 1992, Roma.
(6) R. Kaes, 2012, Il Malessere, 2013, p.111, ed. Borla, Roma
(7) Renè Kaes, 2007, Un singolare plurale, 2007, ed. Borla
(8) Andrè Green, 2012, La clinica psicoanalitica contemporanea.

 

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