Lucky

Commento di Annalisa Curti

Titolo originale: Lucky; Regia: John Carroll Lynch; Genere: Drammatico - USA, 2017, durata: 88 minuti; Con: HARRY DEAN STANTON, David Lynch, Tom Skerritt, Ron Livingston; Sceneggiatura: Logan Sparks, Drago Sumonja; Fotografia: Tim Suhrstedt; Montaggio: Robert Gajic.

Commento Cineteca di Bologna 6 Ottobre 2018

“Lucky”, pellicola da poco tempo nelle nostre sale, è un film sulla vita, sul senso della vita come afferma lo stesso regista John Carroll Lynch. Il cineasta offre con questa opera prima un omaggio commosso al re, al veterano dei caratteristi Harry Dean Stanton, immortalandolo nel ruolo della vita nel suo fine vita – l’attore muore nel Settembre 2017 a 91 anni dopo appena tre mesi dalla fine delle riprese.
Nel film si intrecciano in una perfetta armonia la vita e la morte, l’amore, le relazioni e l’isolamento, la negazione del dolore. Le canzoni con i relativi testi sono utilizzate in maniera magistrale dal regista per penetrare ancora più profondamente nei pensieri e nelle emozioni del protagonista.
La pellicola inizia con una testuggine che vaga nel deserto, senza una precisa direzione, lentamente, come se avesse a sua completa disposizione tutto il tempo e tutto lo spazio.
Dopo pochi fotogrammi assistiamo al risveglio di Lucky. Un novantenne ossuto ci mostra da subito i segni del tempo trascorso mentre una musica mariachi, che intona “il tempo è un buon amico”, lo accompagna durante i suoi rituali mattutini: la sigaretta, la pratica yoga dei  5 riti tibetani, il latte, la colazione alla tavola calda, la visita al negozio di alimentari,  e finalmente il rientro a casa,  per assistere al suo quiz televisivo.
Assistiamo alla scansione della giornata del protagonista, a quella serie di movimenti ripetuti e ripetitivi che tengono insieme l’esistenza dell’anziano, comportamenti ripetuti che cuciono insieme la sua vita. Ma sottostante c’è la percezione confusa che il protagonista viva male, senza dolore sì, ma anche senza gioia. Questa reiterazione fornisce a Lucky la sensazione di essere padrone della propria vita, di avere il controllo onnipotente del tempo e dello spazio, come la testuggine dei primissimi fotogrammi.  Lucky si è rinchiuso in una solitaria autarchia – vive da solo nel deserto -, nella quale le persone, le relazioni non assumono per lui una valenza pregnante, possono essere addirittura niente. “You’re nothing” è l’abituale saluto che rivolge al proprietario della tavola calda nella quale tutte le mattine prende il caffè cercando di risolvere le sue parole crociate. E’ come se nel misconoscimento del valore dell’altra persona Lucky tranquillizzasse se stesso di non dipendere dall’altro, desertificando dalle emozioni e dai bisogni le relazioni presenti intorno a lui.
È comunque ben voluto dagli altri, ma è sempre Lucky che decide il quando e il come raggiungere gli altri.  Il protagonista è in un presente continuo apparentemente eterno, in uno spazio atemporale nel quale tutto viene ripetuto e rimane immutato, senza fine. Le parole crociate, pratica che accompagna la sua giornata e per la quale chiede l’aiuto delle persone, rappresentano un tentativo di mettere insieme lettere e dare un nome alle cose, ma esclusivamente in un registro razionale, nel quale gli aspetti emotivo-affettivi vengono tenuti fuori.
Non è un caso che si interessi tanto alla parola REALISMO, vocabolo nel quale l’anziano si imbatte nel suo cruciverba. Il Realismo di Lucky, della prima parte del film, afferisce ad un registro concreto, ad una visione materialistica della vita dalla quale vengono escluse emozioni, vissuti ed affetti: è un po’ come se il protagonista conducesse una vita bidimensionale, nella quale la terza dimensione, la profondità - la profondità delle emozioni, del dare un senso a ciò che ci accade, profondità di un pensiero che si integri con gli affetti e le emozioni - è forclusa.
Ma in una mattina come tante, in una scansione monotona dei giorni, davanti ad una caffettiera con un orario non impostato, Lucky ha un improvviso malore. Rivolgendosi al dottore, si rende conto, diventa consapevole, che non c’è cura per la senescenza e non c’è cura né antidoto men che meno per la morte. La vita ha un inizio ed una fine, e la morte ne decreta il limite supremo. Quel malore diventa un presagio, una previsione di un limite futuro, imminente vista la sua veneranda età.  Dopo questa rivelazione, arriva alla tavola calda dove abitualmente prende il caffè ma si accorge che il suo posto è stato preso da alcuni ragazzi. La nostra fine è un inizio per altri e questo è il destino dell’uomo: lasciare la propria sedia, il proprio sgabello alle generazioni future, facendo sì che il lascito sia il più  confortevole e migliore possibile.
Lucky vedendo questi ragazzi che hanno occupato il suo posto non si adira, come forse avrebbe fatto il cowboy un po’ burbero del giorno prima, e, in tutte le interazioni successive, il protagonista mostra per la prima volta, con una sua propria riservatezza, fatta anche solo di sguardi, una inusuale fragilità e bisogno degli altri. La telefonata all’amico, incentrata sull’episodio verificatosi da bambino, diventa occasione per parlare di sé, per dare qualcosa di sé ed esprimere il terrore de’ “il silenzio sconvolgente del mondo”.
Comincia così a sentire il dolore.
La sofferenza e l’angoscia sono il motore principale della trasformazione e del cambiamento. Lucky nella prima parte del film, rifiuta il dolore, ma rigettare l’afflizione significa l’anestesia emozionale (Bion), la negazione della sofferenza che non permette al dolore stesso di tramutarsi in energia propulsiva per la metamorfosi necessaria alla nostra continua evoluzione psichica. La vita trascorre così, fluisce senza nessun accadimento, in una ripetizione monocorde, bidimensionale delle giornate e delle cose con le persone che scorrono distanti sullo schermo dell’esistenza. Provare dolore è la conditio sine qua non  per potere godere della vita.
“Nasciamo da soli e moriamo da soli” dice Lucky al suo appuntamento serale con il Bloody Mary al bar – come dargli torto! Ma il suo orecchio interno ora è attento a recepire l’amore espresso dai suoi compagni di serate: la passione di Paulie per la sua amata Elaine, e perfino l’amore di Howard (David Lynch)  per la sua amata testuggine, che gli ha cambiato la vita più delle sue precedenti mogli.
La percezione della fine inesorabile – come un geyser sottomarino – induce tempesta nella sua notte: un’insonne irrequietezza  è accompagnata dalla canzone “I see a Darkness” di Johnny Cash, che concede la possibilità allo spettatore di penetrare ancora più profondamente nei pensieri e nelle emozioni di Lucky.

https://www.youtube.com/watch?v=1eHc6t1KDM8

È un testo molto toccante, che parla di amore, di  speranza, di spinta di vivere, di energia di esistere aggiungerei, e di amore come speranza che ci può salvare dall’oscurità.

Ma l’oscurità c’è e  Lucky la vede così come tutti noi la vediamo, o dovremmo vederla. Infatti se da un lato il “darkness” che vede il protagonista è l’angoscia senza amore, dall’altro è un’oscurità che ha il sapore e l’odore aspro e penetrante del “Memento Mori”. Osservando la genesi della locuzione latina “Memento Mori” ci si accorge che ciò che è stato tramandato nei secoli è il mero aspetto persecutorio, di cui è stato smarrito progressivamente quello evolutivo. Nell’Antica Roma il trionfo, seguito dall’ovazione, era la più alta ricompensa militare ed era inteso come un onore tributato ad un generale dell’Esercito Romano che non solo era uscito vittorioso dalle battaglie, ma che si era distinto per la bravura ed il coraggio. Il cerimoniale deputato ad accoglierlo trionfalmente ha subito dei mutamenti nel corso dei secoli fino ad arrivare ad includervi quello che ne sarebbe stato uno dei suoi momenti fondanti: un servo, tenendo alzato al di sopra della testa del generale una corona d’alloro, gli sussurrava ripetutamente nell’orecchio, come un mantra:“Memento Mori, memento te hominem esse, respice post te, hominem te esse memento” ossia “ricorda che devi morire, ricordati che sei un uomo, guardati attorno, ricordati che sei solo un uomo”.

È un’immagine estremamente affascinante quanto anacronistica rispetto al nostro presente. L’enorme accelerazione scientifica e tecnologica degli ultimi decenni, unitamente ai cambiamenti sociali intercorsi, ha dato all’uomo moderno l’illusione onnipotente dell’immortalità, di poter dominare tutto e tutti. Tuttavia, mentre il generale romano veniva acclamato ed applaudito per le sue conquiste ed al contempo contenuto per la sua eventuale sicumera ricordandogli che era solo un uomo, non un Dio onnipotente, oggi si fatica a parlare e a pensare ai limiti nonché al limite supremo: la morte. La negazione dell’angoscia e della paura della morte induce uno stile ed un’andatura affannosa ed affannata al passo e al respiro dell’uomo contemporaneo. Tenere a mente che prima o poi si morirà – senza necessariamente fare come i frati trappisti del ‘600 che quotidianamente, lentamente si scavavano la propria tomba – non tanto tempo addietro, era considerato non un fatto negativo ma un incitamento a vivere una vita virtuosa, buona e significativa.

Mitchell, prendendo a prestito una metafora di Nietzsche (ne’”La nascita della Tragedia”), parla del delicato equilibrio tra illusione e realtà e tra onnipotenza e limite e postula tre diversi tipi di atteggiamento dell’uomo di fronte al limite.

  • C’è chi, durante la bassa marea, continua ciecamente a costruire elaborati castelli di sabbia nel bagnasciuga, convinto che le sue creazioni dureranno in eterno, dimenticando del tutto che l’alta marea in arrivo inevitabilmente li demolirà: ignora la realtà che ogni volta lo sorprende e lo ferisce. Lucky, nella prima parte del film, nega la caducità umana, rimanendo addirittura sorpreso quando il dottore gli ricorda che non c’è cura per la vecchiaia e, nel negare la fuggevolezza della vita, anche le sue emozioni sono tenute fuori.
  • C’è chi invece si rifiuta di costruire castelli di sabbia e non si concede così uno spazio psichico in cui vivere e giocare, sapendo che l’alta marea arriverà, troppo angosciato dalla natura effimera della vita e disposto a costruire soltanto se alle sue creazioni viene assicurata l’immortalità. In un brevissimo scritto “Caducità” del 1915, Freud, in compagnia di un amico silenzioso e di un giovane poeta già famoso, che ho imparato essere Rainer Maria Rilke, si reca in gita in una contrada estiva in piena fioritura. Rilke ammirava la bellezza della natura ma non ne traeva gioia, angosciato dall’ idea che tutta quella bellezza era destinata a morire col sopraggiungere dell’inverno. Il pensiero della caducità della vita, della non eternità porta Rilke e l’amico a non potersi permettere di godere di quella vista. E’ partendo da questa visione che, in Lucky, trae origine la negazione dell’arrivo della marea, la negazione dell’arrivo di quell’onda che ineluttabilmente trascinerà via la sua vita e i suoi castelli. La disperazione – di-speranza – che nulla sia eterno e che investire nelle relazioni possa esporre a delusioni ed abbandoni era probabilmente talmente potente ed intollerabile da portarlo a negare sia le emozioni e gli affetti  che la realtà stessa, il concetto di fine, la morte. La realizzazione della “preconcezione” della morte[1] è stata con ogni probabilità fallimentare in Lucky. La “preconcezione” della morte intesa anche nel senso di preconcezione della separazione, del limite ha prodotto un tale carico di tensione nell’apparato psichico di Lucky che il suo “salvavita della mente” ha tolto l’energia in alcune stanze della sua mente. Nel momento in cui il salvavita scatta, la difesa taglia fuori alcuni ambienti e quindi isola sia la tensione e le emozioni, che in esubero avevano creato il cortocircuito, sia gli aspetti della realtà intollerabili. L’angoscia di morte è fisiologica e porta, ad ogni età della vita o accadimento dell’esistenza fisico o psichico, una continua e necessaria elaborazione intima, una serie di incessanti aggiustamenti interni da permettere di usare, vivere e godere il tempo che rimane. Nei primi due comportamenti degli uomini proposti da Mitchell, mutuati da Nietzsche, siamo in presenza di una fuga maniacale e di un nichilismo depressivo di fronte alla marea che distruggerà i castelli e che trascinerà via con sé la vita. Ma c’è anche una terza possibilità…(della quale Nietzsche non riusciva proprio a capacitarsi).
  • C’è anche un terzo uomo, un terzo atteggiamento dell’uomo. L’atteggiamento di chi, consapevole della marea in arrivo e della natura transitoria di ciò che sta costruendo, consapevole dunque delle limitazione che la realtà inevitabilmente pone, è impegnato comunque con PASSIONE, a costruire i suoi castelli, insieme ad altri, in un delicato equilibrio tra illusione e realtà, tra gioco, creatività e realtà, tra speranza e paura.

Il malore e la conseguente consapevolezza della fine fisica, permette di riportare la luce in aree della casa psichica di Lucky che erano rimaste al buio. Lucky, passa quindi da un’anestesia emozionale, da una vita che scorre senza che nulla accada, ad una vita nella quale le relazioni e le emozioni acquistano importanza, valore e significato.
Lo spettatore assiste alla commovente rinascita del protagonista, proprio quando la morte è in procinto di bussare alla sua porta.
Per Lucky la sensazione di fine, l’irruzione della dimensione tempo, così drammaticamente contro di lui, spazza via il distacco dal dolore, e lo obbliga a riconoscere, vedere e rivedere la sua esistenza, a riconoscere l’energia di esistere, la spinta a vivere.
Lucky trova o ritrova un legame emotivamente vitale con la vita che nell’abbraccio con la cameriera alla quale si abbandona – provando piacere – e alla quale confida di avere paura, sintetizza PAURA E SPERANZA. Paura e speranza che qualcuno possa salvarlo dall’oscurità come dice la canzone di Johnny Cash. Se ci si apre alle emozioni, si possono ascoltare e far cantare le emozioni e la vita.
Alla festa di compleanno del bambino “Juan Wayne” Lucky canta la canzone: “Volver”.

https://www.youtube.com/watch?v=77rJ8OSjhdM

Lucky canta che “Volver” può esporre al “Perder”, ma sta comunque finalmente cantando la vita. Canta che la Speranza – “volver a tus brazos otra vez” -, può esporre alla Paura – “perder”.  Bion, regalandoci l’immagine dei naufraghi che avvistano la nave, condensa in questa illuminante metafora quanto la speranza – la possibilità di sperare e non di disperare – porti con sé la paura: paura, che può diventare terrore, che la nave-speranza non li veda.
Solo con la dolorosa assunzione emotiva del limite, della propria transitorietà, può nascere la passione per la vita cosicché, innanzi all’inevitabile  senso di caducità, l’anelito all’immortalità può  trasformarsi in una “speranza dell’ancora possibile” (De Masi). Il monito da non dimenticare  è che ogni spazio di vita, piccolo o grande che sia, debba valere la pena di essere vissuto, goduto e consumato.
Bion suggerisce una importante distinzione tra l’esistenza, intesa come capacità di esistere e l’aspirazione di avere un’esistenza che valga la pena di essere vissuta, di essere usata. La qualità dell’esistenza non la quantità; non la lunghezza della propria vita, ma la qualità di quella vita.
Esiste un balsamo che possa lenire la visione oscura della fine,  che possa recar sollievo a “I see a darkness”?
Investire con passione il mondo intorno a noi, forse ci consiglierebbe E. Gaburri: la passione è l’opposto della coazione a ripetere, “la morte del divenire”.
L’amore e la passione, perfino artrosicamente espressi, possono farci godere della fioritura di una contrada estiva – tanto fuggevole quanto immortale  - e possono concederci la fiduciosa (speranzosa) “passione di essere nel mondo”, cambiando la temperatura della celebre frase di Pasolini.

Dott.ssa Anna Lisa Curti -  Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

[1] Eugenio Gaburri introduce il concetto di “preconcezione” della morte: “Nella mia proposta credo vantaggioso postulare una “preconcezione” della morte che consente le separazioni evolutive, prelude la triangolazione edipica e interviene nella elaborazione del lutto…. Pre-disposizione (intrinseca al paziente) che si trasforma in competenza del piccolo bambino di realizzare le separazioni”.

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