A. De Rosa. Tempo e psicoanalisi

Relazione introduttiva presentata alle Giornate residenziali Sipp

Il Tempo della Vita nella Relazione Psicoterapeutica

27 e 28 Ottobre 2017, Roma

 

 

Tempo e Psicoanalisi

di Antonio De Rosa, Presidente Sipp

 

Il concetto di tempo è strettamente connesso con la psicoanalisi.

Nascere e morire rappresentano gli estremi di un tempo che delimita la storia di ciascun individuo.
Nell’ambito di questa consapevolezza può aver luogo il vivere responsabilmente il tempo che li separa. La vita e la morte costituiscono elementi del processo tali da generare tanto l’amore per il vivere quanto il terrore di morire. È proprio la conoscenza del limite a dare all’individuo il senso della propria storicità. E questa pulsione epistemofilica, il bisogno di ricercare questo senso, è il motore del processo analitico. Lo stesso processo, il transfert, le trasformazioni rendono l’analisi stessa una delle declinazioni del tempo.
La relazione analitica, in questo senso, è il luogo degli incontri dei tempi, tempo dell’analista e tempo del paziente, attraverso cui si dipanano tutti gli altri significanti temporali. Questo è il tema al centro delle giornate di inaugurazione di quest’anno accademico 2017– 2018.
Volevo condividere il percorso con cui si è formata l’idea di formulare questo  tema  delle giornate inaugurali. Alcuni anni fa ero andato a far visita alla mia anziana analista. Bevemmo un caffè e tra una parola e l’altra le chiesi se continuasse il suo lavoro con i pazienti e con analisi formative.
Mi rispose che seguiva solo pazienti in terapie a tempo determinato. Ingenuamente le chiesi il perché e lei con un sorriso mi rispose: “Sa, alla mia età..”. Penso che all’epoca non avesse superato gli 80 anni e considerai un po’ pessimistica la sua risposta, ma forse nel mio pensiero non volevo che invecchiasse.
Misi da parte questo episodio, che poi ritornò alla mia mente forse nel momento che percepivo che il tempo passava anche per me. Ho iniziato allora a riflettere sulle tante configurazioni che si determinano nelle stanze di analisi. E ho pensato anche a  quando poteva sopraggiungere l’età del mio pensionamento. Cristiano Scandurra, che introduce il tema in una delle sessioni di domani, affronta questo problema ed è interessante come formula il quesito sull’intreccio tra reale e fantasmatico.
“In un interessante articolo volto a trattare i possibili criteri per il momento “più giusto” del pensionamento di uno psicoanalista, prestando una notevole attenzione alle implicazioni psicodinamiche di questa fase evolutiva della vita, Danielle Quinodoz (2013) pone in essere una questione cruciale: la differenza tra l’età fantasmatica e l’età reale. L’autrice, di fronte alla domanda “a quale età uno psicoanalista dovrebbe andare in pensione?”, parte dal presupposto che, quando lavora con i pazienti, esso ha nello stesso tempo differenti età. C’è qui un chiaro riferimento al transfert e all’età che il paziente attribuisce transferalmente all’analista. Ciononostante, Quinodoz sottolinea con forza che un analista che consideri la sua sola età fantasmatica rischia di farsi sopraffare da un sentimento di onnipotenza, come se fosse impermeabile al passaggio del tempo. Al contrario, un analista che consideri solo la sua età reale è a rischio di rendere inefficace la sua capacità di rêverie solitamente utilizzata per disintossicare le ansie che il paziente proietta su di lui.
Quinodoz, tramite un riferimento ad Hanna Segal, punta l’attenzione sulla costante interazione tra la fantasia e la realtà: è questa reciproca influenza che modella la nostra visione del mondo e, quindi, la nostra stessa percezione della realtà. È infatti l’ingresso nella posizione depressiva da parte del paziente a consentire a quest’ultimo, in un graduale processo, di cominciare a percepire l’analista per quello che è, apportando la consapevolezza, spesso dolorosa, che la proiezione all’esterno delle proprie fantasie colora la percezione della realtà. Credo che, rispetto ai punti prima tracciati – tra cui, la neutralità, le caratteristiche reali dell’analista quale “roccia dura”, la negazione della realtà –, quella di Quinodoz rappresenti una posizione moderata, in grado di tenere al suo interno il giusto equilibrio tra questi aspetti differenti.
Sono ritornato poi a molte analisi condotte in età giovanile. Ho iniziato a lavorare a 28 anni, contestualmente all’inizio della mia analisi. Quanti pazienti difficili, a volte poco comprensibili con tanti dubbi sulla mia credibilità di giovane terapeuta. Talora si trattava di invii da parte di analisti anziani che consideravano pesanti quei casi in relazione alla loro età. Eravamo agli inizi degli anni ottanta  in pieno fermento formativo. Altre volte si trattava di pazienti inviati da colleghi neuropsichiatri che non avevano avuto risposta con i soli psicofarmaci.
Il tempo della vita all’epoca era impregnato (per me) del bisogno di credibilità, anche in rapporto al concetto che la pratica analitica aveva nel contesto socio-culturale, e di difficoltà con i pazienti più avanti negli anni. Solo l’entusiasmo faceva da sostegno, al di là dell’analisi personale (o forse grazie alla analisi personale). Spesso la mia giovane età rendeva difficile gestire il rapporto con i coetanei.
Queste considerazioni mi hanno indotto sempre più a riflettere sull’esperienza soggettiva e sulla dimensione del tempo nella nostra vita.
Ho rivisto alcune letture addentrandomi sul tempo dei filosofi.
Il pensiero greco ci ha dotato dei suoi fondamentali e la parola tempo può essere detta in tre modi diversi: aion (il sempre, la durata senza limiti, senza passato e futuro); chronos (la grandezza misurabile tra futuro e passato); kairos (il tempo che ha un significato, quello che poi Minkowski definisce il tempo vissuto). Platone prima di quello del movimento e degli oggetti pone l’aion nell’eternità e considera il chronos come una imitazione dell’essere, tempo delle cose destinate alla consumazione e alla morte. Aristotele invece collega tempo e movimento, assimilando il tempo allo spazio.
Il pensiero cristiano pone l’uomo nel flusso della storia, laddove S. Agostino indaga il tempo dell’interiorità prima di quello del movimento e degli oggetti. “..né il futuro, né il passato esistono. I tempi sono il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuito, il presente del futuro è l’attesa. In che modo - egli si chiede - diminuisce e si consuma il futuro che ancora non esiste? O come cresce il passato che più non è, se non perché nell’anima…..essa infatti attende, porge attenzione, ricorda di modo che ciò che aspetta diventa prima oggetto dell’attenzione poi della memoria (Confessioni, libro XI).
La fisica ha anche molto modificato la nozione del tempo, ma quello che a noi interessa maggiormente è il tempo e le relazioni. Qui possono nascere molte contraddizioni e grovigli, tra cui una pluralità dei tempi legata a diversi livelli di realtà.
Considerando il nostro campo di azione, ho trovato interessante la relazione presentata al seminario di Formazione Psicoanalitica "Il Sessuale come trasformatore psicologico: l’Après-coup" di Jacques André” (Accademia “La Colombaria” - Sabato 1° ottobre 2011). 

“Il tempo è insieme allo spazio una delle due dimensioni fondamentali della soggettività e dello sviluppo individuale. L’apparato psichico non solo nasce e si sviluppa in funzione del tempo, ma è anche abitato da una molteplicità di direzioni temporali in tensione tra di loro all’interno del soggetto. Questo fenomeno, che parcellizza una visione unitaria del tempo, è stato definito da Green (2000) dell’“eterogeneità diacronica”, nel senso che la vita psichica deve essere pensata come “fondamentalmente pluridirezionale”. Tale condizione si riflette nella pratica clinica, nella quale il tempo assume forme diverse, che si esprimono nella compresenza all’interno della seduta di un tempo lineare, di un tempo ripetitivo (nel senso del bisogno di ripetere e del ripetere di un bisogno), che è anche forma di memoria e non solo blocco (Green, 2007; Riolo, 2007), di un essere fuori dal tempo, come nell’esperienza inconscia e onirica, di una inversione della freccia del tempo. Bolognini (2007) definisce la “consubstanzialità” proprio come la capacità da parte dell’analista di “fluttuare” all’interno di differenti dimensioni temporali.”
Ma forse fra tutti gli aspetti connessi con il tempo relativi all’analisi, quello più pregnante è quello della neutralità, che pur apparentemente sembrerebbe rispondere al tentativo di liberarsi dalle catene del tempo. Mi riferisco anche al fatto che rappresenta il concetto che più è andato incontro a revisioni con il progredire degli studi psicoanalitici, più allo stesso tempo sembra dover resistere alle evoluzioni del tempo per garantire la validità e la continuità del pensiero freudiano. Man mano, infatti, che nuove riflessioni prendevano piede, più deboli diventavano i richiami alle precedenti immagini dell'analista, specchio che riflette spassionatamente i contenuti emotivi dei pazienti e vi risponde con silenziosa passività. Altre immagini e dizioni prendevano il loro posto. Holding, reverie, rispecchiamento, sono tutte espressioni che non denotano più la pregiudiziale passività dell'ascolto dell'analista ma indicano invece il suo andare incontro al paziente, il suo essere un attivo agente di un cambiamento terapeutico, raggiungibile con mezzi altri e distinti da quelli dell'attività interpretativa tradizionale (Bordi 1994). È abbastanza chiaro che il consenso guadagnato da queste dizioni e concetti, è legato al fatto che si sono progressivamente modificate  le prospettive teoriche e terapeutiche della psicoanalisi,  ma personalmente sono persuaso che dietro l’accrescere del valore dell’empatia, della comunicazione all’interno delle dinamiche della relazione terapeutica, dell’esperienza affettiva condivisa ci sia il desiderio inconscio – sempre presente – dell’analista di esorcizzare il lutto continuo della propria persona in analisi e il timore della propria morte proprio attraverso il suo calarsi nel qui e ora della relazione.
Ma il punto centrale della mia osservazione è rispondere alla domanda-riflessione su come il tempo della vita vuoi del paziente e soprattutto dell’analista incidano nella dinamica del processo terapeutico. Gli intrecci sono molti e non si può rispondere a tutti, ma forse il mio desiderio è poter riflettere insieme su tutto ciò. Da ciò la presenza di tre esperti colleghi. Non ho letto le loro relazioni tantomeno me ne hanno parlato. Il tempo me lo ha impedito. Non il tempo reale, ma quello fantasmatico che ha inglobato il desiderio di condividere con voi tutti nell’hic et nunc di queste giornate questo ascolto del discorso sul tempo.

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